Se la violenza esibita offusca le esigenze di tutela
martedì 25 settembre 2018

La violenza atroce è una modalità del crimine. Ma è anche un 'genere di consumo': per l’industria dello spettacolo. Quella tipica (film, serie televisive, gomorre e suburre) e quella forma di intrattenimento softcore che si propone con talk show dedicati (Storie Maledette, Quarto grado) e anche generici.

Quando l’audience rischia di calare si riequilibra la situazione con immagini, spesso di repertorio, di sangue, di particolari raccapriccianti. Ieri la tentazione ha fatto colpo anche sui tg, con le riprese ben strette sul volto massacrato del dottor Martelli di Lanciano. Cos’hanno aggiunto alla pubblica opinione, quei dettagli? Un’informazione giornalistica? Forse, ma ancor più hanno rilanciato due aspetti simmetrici. La prima è l’immagine di potenza dei banditi, una statura di mostri che trasferisce loro una risorsa da distribuire ad altri scellerati rapinatori. 'Tagliate corto – dice quella sofferenza – e arrivate all’estremo. Sarete potenti e vincenti. Colpiscine uno per ammaestrarne cento'.

L’informazione che si arroga la presunzione di contribuire alla 'difesa sociale' dal crimine, rifletta piuttosto sul rovesciamento dei fini. Invece di aiutare la giustizia, essa ne aumenta le difficoltà e incentiva, per contrappasso, la spinta criminale alla replica. Se questo è il primo aspetto, va descritto anche il secondo. Ben noto a pochi, genuini sociologi (per esempio Jonathan Simon, Governing through crime): le immagini feroci e la violenza rappresentate nei media sono una 'risorsa', cioè un ingrediente per il consenso: politico, commerciale, mediatico.

È atroce, ma se non lo si ammette, ci si esonera dalla critica e quindi dal richiamo etico della coscienza umana, anche nella forma del richiamo ai doveri professionali. La violenzaspettacolo e la violenza instrumentum regni oscurano il nodo, che si è propensi a ignorare. Che è quello della sovranità dello Stato legittimo sul territorio del Paese. Sovranità amministrativa, innanzitutto, a partire dai Comuni e, poi, a salire su, fino allo Stato. L’urbanizzazione diffusa del territorio, per esempio, crea un problema tecnico: come garantire lo standard minimo inderogabile di sicurezza pubblica, di controllo sociale, di efficacia dei mezzi di soccorso, in prevenzione e in intervento.

Andiamo nello specifico. Come si progetta e si realizza – con una rete di servizi adattati alla morfologia del territorio – il controllo del territorio delle forze dell’ordine? A 'catalogo', ovvero con la lista degli obiettivi a rischio? In analogia con l’organizzazione della Salute, che propone prevenzione, cautela ambientale, accorgimenti negli stili di vita, dispositivi (per esempio vaccini).

O similarmente alla sicurezza stradale: manutenere con cura l’autovettura, dotarla di dispositivi adeguati. A voler entrare ancor più nel merito, e cioè nello spazio che dovrebbero occupate tutte, davvero tutte le amministrazioni pubbliche: come si delinea la domanda di sicurezza dei cittadini? Quali direttive si emanano, quale idea dei territori, quali capacità delle forze di polizia di costruire legami di fiducia con i cittadini? Può apparire ovvio e scontato, ma ogni giorno è una smentita: la prevenzione si prepara 'prima'. I segni di una minaccia vanno colti in anticipo. Le strade, le contrade, gli orari, le luci, i movimenti delle persone: tutti questi elementi non sono muti. Parlano, eccome.

Ma non dev’essere solo qualche sociologo che ne ha fatto motivo di studio e di formazione ad avere orecchi per intendere. Per l’insormontabile ragione che la violenzaspettacolo – tanto per esaltarla commercialmente quanto per condannarla con ferma indignazione – allontana la risposta pragmatica. Quella che serve: competente, responsabile, umana. Si riuscirà adesso a fermare sul nascere la spirale di inconcludenza polemica dopo il dolore di Lanciano? Si saprà rinunciare al magro bottino di un consenso demagogico per puntare invece a una strategia efficace e vincente della polizia, forte della collaborazione sociale?

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