venerdì 22 gennaio 2010
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«Il temporale è passato, la festa può ricominciare...». È questa l’aria che da qualche mese si respira nei santuari della finanza mondiale, e anche fra le boiseries delle Banche italiane. Traducendo, affinché tutti possano comprendere: allorché esplose la Grande Crisi (inverno 2008) che fece temere un crac dell’intero sistema capitalistico globalizzato, non vi fu bisogno di strologare, andare alla ricerca di «mali oscuri». Le responsabilità furono subito chiare, individuate nei comportamenti di banchieri e speculatori; nella talvolta interessata disattenzione dei controllori (Federal Reserve, Banca centrale europea in primis); nella debole autorevolezza dei politici, di quei ministri del Tesoro che pur riunendosi in continuità, non avevano né visto né previsto. Arrivato il ciclone, l’inconsueto spettacolo di una generale autocritica, seguita dalla solenne promessa, quasi un giuramento. «Abbiamo sbagliato, ci siamo lasciati prendere la mano dalla finanza creativa. Non lo faremo più...». Davvero pentimento da marinai impenitenti. Infatti, non solo la stragrande maggioranza di coloro che si trovavano ai vertici hanno conservato le poltronissime, ma senza perdere tempo hanno preso a ribattere le vecchie strade. Sui circuiti finanziari sono ricomparsi quegli strani Ufo, che hanno per nome «derivati». In pratica, scommesse da casinò, sulle materie prime, le azioni, i debiti delle aziende e degli Stati; poi trasferite, con astuzie degne di quegli alchimisti che nel Medioevo pretendevano di trasformare il ferro in oro, alla moltitudine dei risparmiatori. Ingenui pesciolini alla mercé degli squali. Tecnicamente (sarebbe complesso entrare nei meccanismi), un bis di quanto è avvenuto coi «mutui facili», all’inizio del crac. Come prima, peggio di prima, allora? Pur evitando moralismi, non si può restare insensibili a un secondo fatto. I bonus milionari che, sotto ogni cielo, banchieri e finanzieri si autoattribuiscono. Precisando: quasi sempre prescindendo dai risultati conseguiti. Mentre diluviava, si erano impegnati a rivedere i loro compensi; senonché l’appetito e la tentazione sono risultati troppo forti. Tant’è che nel mondo anglosassone è polemica, col premier inglese Gordon Brown e più timidamente col presidente Usa Obama, determinati ad arginare l’andazzo. Anche perché i beneficiari dovrebbero essere quegli stessi personaggi, spesso inamovibili, che sono stati salvati dalla bancarotta da interventi pubblici. Qualche raro economista, non al guinzaglio, sostiene che in questo modo, con imperdonabile dissennatezza, si rischia di andare incontro a occhi chiusi a un ennesimo disastro. L’augurio, ovvio, è che le Cassandre sbaglino. Tuttavia le perplessità vanno aumentando. Mentre troppi politici sembrano occuparsi di tutto, fuorché dell’economia reale, dei problemi delle famiglie, della stagnazione dei consumi che colpisce in particolare i redditi medio-bassi, molti banchieri tornano a comportarsi da entità separata, autonoma, autoreferenziale. La loro stella polare resta il «far profitto» comunque e con ogni mezzo. Quand’erano con l’acqua alla gola, gli Stati hanno loro offerto zattere di salvataggio; adesso si sono rimessi in linea di navigazione. Come? In Italia lo sappiamo bene: ai depositanti, miseria; alle aziende minori lesinano crediti. In tanti preferiscono macinare utili, appunto, coi «derivati»; inseguendo nuovamente le farfalle della finanza creativa. E ancora una volta, l’etica, lo «spirito di servizio» paiono purtroppo un optional.
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