sabato 9 gennaio 2010
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Scusa Ameri, ma non è normale avere nostalgia di una trasmissione che ancora esiste. Eppure questo si prova di fronte a un oggetto prezioso d’antiquariato, un sussidiario di resistenza umana, un caso clinico di come eravamo (e forse di come vorremmo ancora essere). Perchè è difficile negarlo: «Tutto il calcio minuto per minuto» domani compie cinquant’anni, ma è come se ne avesse mille. La trasmissione radiofonica cult che ha incollato l’orecchio di almeno tre generazioni ai transistor, sembra un totem indiano che regge alle intemperie di un calcio completamente diverso, alieno da quello in cui debuttarono i pionieri della radiocronaca. Di un altro pianeta insomma, quasi come gli i-pod infilati nelle trombe di Eustachio della gioventù odierna che (poverina) mai ha sentito Ezio Luzzi, quello che interrompeva (apposta) un rigore nel derby per dare notizie ininfluenti sulla Serie B. Chissà se fu proprio lui a pronunciare l’impareggiabile «Clamoroso al Cibali»: molti ancora oggi pagherebbero per saperlo. Era un altro pallone, ma anche un’altra Italia. Che apprendeva con un certo sollievo che allo stadio «la ventilazione è inapprezzabile». Che non ha mai capito bene cosa fosse «il campo per destinazione», ma che voleva sentirselo dire lo stesso. E che «gli spalti gremiti al limite della capienza» erano un segno del partitone, altro che storie. Prima un solo campo collegato, con la voce di Nicolò Carosio. Poi tre, infine tutti. Ameri, Ciotti, Provenzali, persino Beppe Viola prima di essere rapito dalla tv: per anni «Tutto il calcio minuto per minuto» ha segnato il progresso avanzante sulla fascia. La democrazia del pallone ha preteso e ottenuto che non ci si limitasse alle cronache dei secondi tempi, abolendo il gusto del segreto e quell’iniziare dall’intervallo, emozionante metafora di un Paese a metà di tutto. Il calcio lo si immaginava, e tanto bastava. Spingendo un passeggino al parco, usando il volume al minimo persino al cinema, o rubando un collegamento ogni tanto alla grintosa insofferenza delle mogli durante le inevitabili incombenze domenicali. Rimpianti? Forse no. Siamo cresciuti in un’era da socialismo reale in cui non si vedeva quasi niente, e adesso possiamo vedere quasi tutto. Il pubblico del calcio 2010 è quello che sta a casa e paga. Prima ascoltava, e anche oggi può farlo, ma preferisce spendere per la diretta in pay-tv. Nella gratuità sta la differenza, essenziale e a suo modo romantica. Perchè «Tutto il calcio» c’è ancora, fulgido (e certo raro) esempio di servizio pubblico. Che resiste e funziona. Senza tifo di parte, senza politica, dove l’unica linea ammessa è quella che si passa. Manca la voce grattuggiata di Sandro Ciotti, ma se accendi la radio c’è. Non pubblicizza più tra un corner e l’altro il liquore nel quale si veniva invitati ad annegare alla fine vittorie e sconfitte della propria squadra (roba da alcolisti anonimi), ma c’è. Siamo noi ad esserci un po’ meno, travolti da un pallone che ormai si gioca ogni giorno e ad ogni ora, e che adesso “minuto per minuto” regala più storture che gol. Scusa Ameri, anche per questo.
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