venerdì 25 luglio 2014
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Caro direttore,
incuriosito dal bell’editoriale di Luigino Bruni: «Il pubblico non è il deserto delle identità», sono andato a cercare l’articolo di Nadia Urbinati cui Bruni faceva riferimento. Non ho certo la preparazione accademica che entrambi possono esibire, ma gestisco da 11 anni una scuola dell’infanzia paritaria, contribuendo così a offrire a tutta la collettività il servizio pubblico dell’istruzione. Sono un cittadino italiano, fiero di essere stato battezzato e prete da 29 anni. La scuola che gestisco è nata un anno dopo di me, nel 1959, perché esplicitamente voluta dalla comunità cristiana di allora. Cosa c’è di “privato” in quell’intuizione che portò il parroco e i capi famiglia di allora a stringere un patto educativo a favore di chi si stava affacciando alla vita? Forse l’intuizione che serviva una scuola per bambini dai 3 ai 6 anni? Sembra di no, visto che lo Stato 10 anni dopo (!) ha riconosciuto quell’intuizione buona per tutti favorendo la nascita di esperienze simili (pubbliche) dove non c’erano. Forse il fatto che quel servizio era rivolto solo ai “nostri” o a quelli che pagano? No, visto che quelli che non pagano, come i non-cristiani, sono doni che Dio Papà non ha mai fatto mancare alla nostra scuola. Forse perché in questa scuola c’era e c’è un progetto educativo cristianamente ispirato, teso a formare uomini e donne secondo il sogno di Dio Papà? Anche in questo caso mi sembra di dover dire di no visto che nella grande storia del nostro Paese non sono mancati politici, amministratori, magistrati, impiegati nella pubblica amministrazione che hanno svolto e offerto con dedizione e competenza servizi a favore della comunità (= pubblico) proprio a partire da quell’educazione cristiana ricevuta, visto che la fede impediva loro di rifugiarsi nel privato, disinteressandosi del bene comune. Di “privato” in questa storia c’erano – e ci sono – i soldi, ma questo è un problema che interessa solo la mia comunità cristiana, la quale continua ad autotassarsi, un tempo per costruire, oggi per far manutenzione e gestire questa scuola volendola aperta a tutti, nessuno escluso. Soldi questi che lo Stato italiano non è mai stato tenuto a dare e che mai ha dato perché fosse “istituita”, come ben recita l’articolo 33 della Costituzione, pur considerandola parte integrante del servizio pubblico dell’istruzione e giustamente chiedendole il rispetto di quanto la legge italiana prevede in tema di istruzione, di sicurezza, di bilancio. Qualora io chiudessi la mia scuola arrecherei danni allo Stato italiano oltre che a 100 bambini, perché i bambini che frequentano la mia scuola, che hanno il diritto all’istruzione, cristiani o musulmani o altro che siano, che i loro genitori possano o meno pagare la retta dopo aver già pagato le tasse per quel servizio pubblico che lo Stato non sta loro dando, diventerebbero un «onere per lo Stato» visto che l’Ocse (e non la Cei) stima il costo di un bambino alla scuola dell’infanzia pari a circa € 5.500 l’anno. E questo senza tener conto del costo della costruzione e della manutenzione dell’edificio scuola dove far svolgere il servizio. Per chi fa fatica in matematica: il risparmio, non il costo, che la mia scuola da sola offre ogni anno allo Stato è pari a 553.200 euro!
Sinceramente trovo io “squallido” che parlando di “pubblico” e di “identità” si approfitti si distribuiscano a pieni mani offese gratuite, definendo chi come me gestisce una scuola paritaria un «ipocrita» perché ritiene la sua scuola pubblica quanto quella statale o, peggio ancora, uno squallido imprenditore che «per amore del denaro baratta la sua libertà». Chiunque scrive può legittimamente far riferimento a idee o ideologie, ma se davvero è interessato al “pubblico” deve astenersi dall’offendere chi concretamente si sta interessando della cosa pubblica. Un servizio pubblico (di istruzione) in osservanza delle indicazioni ministeriali che continua da anni, garantito sinora a circa 1.600 bambini, mentre la parrocchia si è indebitata per circa 200mila euro per coprire il disavanzo di gestione, nella certezza però di aver contribuito a rendere più bello il già variegato tema dell’identità del popolo italiano, cosa questa che non è appannaggio né dei cattolici né degli anticlericali. Per questo servizio “pubblico” la mia scuola è finanziata anche con (pochi) soldi pubblici (= di tutti). Ricordo infine che la nostra Costituzione prevede anche il principio della sussidiarietà (articolo 118), che non autorizza nessuno, in forza di un discutibile “abracadabra”, a identificare la Costituzione con un’interpretazione “privata” dell’articolo 33.
Don Carlo Velludo - Gestore della scuola dell’infanzia “Provera” della Parrocchia di Santa Maria del Sile di Treviso
Non ho molto da aggiungere, caro don Carlo, grazie di ciò che fai e di ciò che scrivi assieme ai tuoi parrocchiani e amici. Ma voglio far riecheggiare una triplice domanda che Luigino Bruni aveva posto nel cuore del commento che tu citi, e che abbiamo pubblicato mercoledì 23 luglio sull’attacco portato ancora una volta all’idea stessa che la scuola paritaria cattolica potesse essere definita servizio (e bene) pubblico: «Ma che idea e quale narrazione si vuol radicare a proposito dei cattolici? Come li si dipinge? La democrazia, i diritti fondamentali della persona e la sua libertà non sono forse anche il frutto del cristianesimo e dei suoi carismi?»... Credo che questa lettera-testimonianza – appassionata e vera – sia la continuazione di quegli interrogativi motivati e amari con una serie di dati di fatto esclamativi che dovrebbero far riflettere tutti, anche i più radicali coltivatori di pregiudizi. I cattolici sono quelli che, anche oggi, in Italia si spendono per garantire opere che incarnano la fede, servono la libertà della nostra gente e dei “nuovi italiani” e rendono migliore la vita delle comunità civili di cui essi sono parte. Lo fanno anche spendendo con generosità – e persino, come in questo caso, facendo debiti – risorse proprie che qualcuno definirebbe “private”. Non tutto riesce sempre perfettamente, alcuni fanno anche errori, qualche volta pure seri, ma l’intenzione e il servizio per il bene comune sono evidenti, tangibili, innegabili. In questo Paese bisogna davvero imparare di nuovo a usare occhi sgombri e, ogni tanto, a saper dire “grazie” anche e soprattutto con il rispetto per chi fa la cosa giusta nella scuola e altrove.
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