martedì 8 giugno 2010
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Caro direttore,riguardo al problema del calo della natalità nel mondo occidentale posso esprimere alcune considerazioni quasi controcorrente? Il progresso scientifico, tecnologico ed economico è sempre avvenuto in stretta relazione con un alto tasso di natalità e con la crescita della popolazione. Dopo le catastrofiche considerazioni di Thomas Malthus (An Essay on the Principle of Population, 1798), l’umanità raggiunge il primo miliardo nel 1830. Il secondo miliardo nel 1930, il terzo nel 1961, il quarto nel 1975, il quinto nel 1987. Nel 1999 l’umanità ha varcato i sei miliardi. C’è stato progresso tecnologico scientifico ed economico in questo periodo? Mi pare proprio di sì. La relazione sembra delineare una legge di natura che solo l’ideologia impedisce di cogliere. Per contro, un basso tasso di natalità ha storicamente sempre anticipato decadenza, con perdita di conoscenze scientifiche, tecnologiche e con diminuzione di standard di vita. Nella mia terra, al tempo del suo massimo splendore, la città di Aquileia poteva contare tra cento e duecentomila abitanti, mentre Concordia arrivava a circa ventimila. Tutta la regione fra il Livenza e il Timavo era abbastanza popolata, anche se certo totalizzava meno dell’attuale milione di abitanti. Poi la popolazione ha cominciato a decrescere, e questo già prima dell’arrivo dei barbari e molto prima del disastroso spopolamento causato dagli Ungari. E in parallelo la tecnologia introdotta dai Romani – strade, ponti, edifici, navi, economia, dominio dell’ambiente naturale – è andata lentamente perdendosi. Una prima ripresa economica e tecnologica dell’Occidente si è affacciata solo dopo l’anno mille. Nel 1420, anno della conquista veneziana, il Friuli non raggiungeva i centomila abitanti, mentre la città di Venezia poteva contare dai 110 mila ai 180 mila abitanti (doge Mocenigo). Quando la tecnologia nella costruzione delle navi moderne e nei trasporti via terra ha superato decisamente la tecnologia dei Romani? Con la Rivoluzione industriale nel XVIII secolo in Inghilterra, anche questa in concomitanza con una grande esplosione demografica. Con tutto ciò, non sono certo paladino dell’idea che progresso scientifico, tecnologico ed economico siano sinonimi di felicità, ma certo i dati proposti meritano di non essere snobbati superficialmente.

Angelo Bertolo, Fiume Veneto (Pn)

Sapevo già, caro Bertolo, che lei sa argomentare con passione. E questa sua lettera è una nuova conferma di quanto il tema delle implicazioni del «suicidio demografico» – per riprendere l’espressione efficace e forte usata dal cardinale Bagnasco in apertura dei lavori dell’ultima Assemblea generale della Cei – sia ormai parte importante della "riflessione diffusa" sull’Italia e sul senso pieno da dare, anche e soprattutto in questo tempo di crisi, al termine "ripresa". Trovo interessante e profondo il suo approccio, e non mi stupisce di certo che lei, nel 2007, su questa base abbia costruito uno dei suoi libri: Fertilità e Progresso - Fertility and Progress. Mi stupisce, invece, chi guarda e non vede ciò che è alla base del "declino" – in parte oggettivo e in parte, come si usa dire, percepito – di un Paese come il nostro: un sentimento di paura del futuro che induce a fermarsi. Qualcuno si ferma per difficoltà vere e pesanti, qualcun altro per comodità (sto bene e mi godo quel che ho), qualcun altro ancora per stanchezza (burocrazia, camarille, cricche...), e c’è anche qualcuno che lo fa per sentito dire... Mi si perdoni la sintesi, ma credo di essere riuscito a farmi capire. Credo, insomma, anch’io che dobbiamo imparare a valorizzare lo "slancio vitale" che in Italia c’è ancora e sempre. E credo che questo compito debba essere assolto con tempestività e, direi, in modo esemplare da chi esercita la responsabilità politica. L’andiamo scrivendo da anni su Avvenire: bisogna sconfiggere la «paura del futuro», riconoscendo nel concreto (e, dunque, investendo seriamente risorse) il ruolo sociale della famiglia; costruendo un welfare sostenibile che assuma anche la realtà dei nuovi lavori e dei mutati modi di lavorare; valorizzando la straordinaria rete di imprese territoriali e di attività di credito popolari che innerva l’Italia profonda; sostenendo la ricerca e orientandola sempre al pieno rispetto del valore della persona umana... Ma sembra che il giorno giusto per dare il via a questo atto di coraggio e di amore per il bene comune sia sempre domani. Eppure più che mai oggi, mentre la crisi non dà tregua e chiede rigore e coraggio, occorre una classe dirigente che sappia alzare lo sguardo e "pensare lungo". Più che mai oggi serve che questo accada, magari mobilitando energie che troppo a lungo sono state centellinate anche nel mondo cattolico, certo offrendo motivi veri e belli alla nostra gente per sentirsi parte di un progetto condiviso, che ci riguarda tutti. Se non scacciamo più che si può quella «paura del futuro» che ci ferma, che non ci fa più fare figli, che ci inchioda per mesi e anni a dibattere su come è meglio morire, che finisce per rendere insidiosa (se non orribile...) quasi ogni prospettiva di riforma istituzionale o di grande opera civile, la crisi non passerà. Anche se i numeri dovessero, per un po’, illuderci.
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