venerdì 5 novembre 2010
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Gli investimenti esteri scarseggiano a valle, nel fiume assetato dell’industria domestica. Ma piovono abbondanti a monte, nelle cosiddette "holding", dove i capitali senza confini approfittano spesso e volentieri di un vizio endemico del sistema italiano: quello di allungare le catene di controllo societarie per consentire a chi comanda di possedere risorse strategiche con un pacchetto di azioni limitato. Il banchetto è sempre ai piani alti, insomma, dove mettere i quattrini è di gran lunga meno faticoso e non richiede di rimboccarsi direttamente le maniche con piani industriali, stabilimenti o uffici da gestire, logistica da mettere a punto. Le "scatole cinesi" sono una bella scorciatoia per capitani poco coraggiosi ma spesso lesti nell’arrivare dritti a ciò che più conta per chi decide di aprire il portafoglio: il ritorno dell’investimento. Anche quando dell’operazione si sottolinea la "logica industriale" e non ha le caratteristiche del "mordi e fuggi" tipico dei fondi speculativi.Se il numero uno della Fiat, Sergio Marchionne, lamenta dunque – a ragione – la scarsa capacità di attrarre investitori del nostro Paese, sono bastate ad esempio quarantott’ore ai francesi di Groupama per staccare un assegno da 150 milioni, stringere un accordo con Premafin e mettere potenzialmente piede nella controllata Fondiaria Sai, seconda compagnia assicurativa italiana. I cugini d’Oltralpe sono stati preceduti dal connazionale Vincent Bollorè, finanziere bretone che ama particolarmente investire nel nostro Paese, tanto da essere, fra l’altro, uno fra i principali azionisti di Mediobanca e Generali. Anche in questa circostanza, però, i capitali esteri hanno saputo approfittare delle debolezze del capitalismo italiano – nella fattispecie l’alto indebitamento della galassia Ligresti che controlla Fondiaria Sai – più che guardare alla forza delle nostre imprese o alla competitività del sistema industriale e finanziario. Musica non nuova. Qualcosa di simile era già successo quando gli spagnoli di Telefonica entrarono supportati dalle banche in Telecom Italia attraverso la "scatola cinese" Telco. O con il colosso dell’energia Edf che oggi, tra partecipazione dirette e indirette, controlla il 50% di Edison. Si potrebbero poi ricordare l’acquisizione di Bnl da parte di Bnp Paribas e il passaggio delle acciaierie del gruppo Lucchini ai russi di Severstal, solo per citare i casi più noti. Tutti investimenti esteri "di lungo periodo" nel nostro Paese – si spera – ma fatti spesso in ottica finanziaria.L’Italia, pertanto, con le sue catene di controllo lunghe come il collo di una giraffa, quanto meno nelle stanze della finanza si rivela particolarmente "attraente" per i capitali stranieri. Ben diversa la situazione nei capannoni e negli open space degli impiegati. È ai piani bassi, infatti, che non riusciamo a essere charmant.Per questo siamo all’ultimo posto tra i grandi Paesi dell’Unione Europea nel rapporto appena presentato dall’Istituto per il commercio estero con il Politecnico di Milano sulla capacità di attrarre capitali, piccole e medie aziende incluse: il nostro rapporto tra lo stock di investimenti diretti esteri in entrata e il Prodotto interno lordo è al 18,6% contro il 51,7% del Regno Unito, il 45,9% della Spagna, il 42,8% della Francia e il 21% della Germania. E nelle regioni del Sud in situazione ben più grave.Non c’è dubbio, quindi, che vadano risolti quanto prima i ben noti "problemi strutturali" – dalle infrastrutture alla burocrazia ipertrofica – che affliggono da decenni il sistema-Paese. Ma è altrettanto vero, probabilmente, che andrebbe fatto un po’ d’ordine nello scaffale ingombro di scatole cinesi a Piazza Affari. Scatole che funzionano come miele per api internazionali allorché si tratta di accomodarsi al tavolo di comando senza sporcarsi troppo le mani con un’impresa da gestire davvero. A tutti i livelli.
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