sabato 19 febbraio 2022
Un linguaggio creativo e affascinante per farsi capire ed emozionare chi legge o è in ascolto: una strategia intelligente contro lo tsunami del chiacchiericcio politico collettivo
Saper scegliere le parole giuste può migliorare il clima sociale

Solinas

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Negli ultimi decenni si è affermata una cultura che tende a sottolineare il peso che le parole hanno nel promuovere atteggiamenti di rispetto e considerazione nei confronti di determinati soggetti sociali. Sono stati soprattutto i movimenti e le associazioni di donne, in Italia e all’estero, a cominciare a chiedere, oltre vent’anni fa, una maggiore sensibilità nel linguaggio, in particolare in quello mediatico, chiedendo a gran voce (e in alcuni Paesi ottenendo) codici di autoregolamentazione da parte dei media più rispettosi della realtà delle donne. Ma ora stiamo assistendo a una distorsione patologica di queste, pur legittime, istanze.


Tra l’ossessione del «politically correct» e la sciatteria nell’uso dei termini

Alla fine di novembre la stampa italiana ha dato conto del clamoroso dietrofront della Ue rispetto a una sorta di decalogo sulla comunicazione politically correctvoluto dalla commissaria europea all’Uguaglianza Helena Dalli sui temi del “gender” e delle radici cristiane. La notizia, solo apparentemente minore, riguarda in realtà un tema fondamentale, e cioè come la cultura collettiva di un popolo (in questo caso dell’intera Unione Europea) possa essere influenzata, condizionata dalle parole che si usano nel “discorso” sociale; direbbero i sociologi della comunicazione, come la stessa realtà venga “costruita socialmente” a partire dalle parole che vengono scelte. Il documento si proponeva, è bene ricordarlo, in nome dell’inclusione sociale di limitare i riferimenti di genere, etnia, razza, religione, disabilità e orientamento sessuale, un elenco ricorrente nella normativa antidiscriminatoria. Ma nel dare suggerimenti concreti, il “decalogo” sfiorava il ridicolo: bisognerebbe dire, vi si sosteneva, «le festività possono essere stressanti» e non «il Natale può essere stressante» per non offendere (sic!) i non cristiani.

Così pure, vi si diceva, meglio evitare nomi che fanno riferimento a radici cristiane (come Maria e Giovanni) meglio i più neutri Malika e Giulio. Vi si affermava di non rivolgersi a un pubblico con «signore e signori» e preferire il neutro «colleghi», di non usare in una mail Miss o Mr. a meno che «non sia preferenza esplicita dei destinatari» e via delirando. Siamo dunque in una situazio- ne paradossale in cui da una sostanziale e diffusa trascuratezza linguistica si è passati a un’attenzione patologica da disturbo ossessivo compulsivo. Questo episodio dimostra come sia difficile la sintonia tra lingua e mutamento sociale, anche perché è facile che ogni micro-cambiamento o deviazione pretenda un adeguamento del lessico sociale in nome di un presunto processo di attualizzazione.


Le categorie dei progressisti e dei conservatori non riescono a dar conto della ricchezza delle posizioni, e l’innovazione rischia di tradursi in una forma di conformismo sociale

Tant’è: il destino del linguaggio è quello di essere al tempo stesso assolutamente centrale nella storia umana e per lo più misconosciuto e trascurato. Per quanto scrittori, giuristi, artisti si siano sforzati nel corso dei secoli di fare del linguaggio una delle creazioni più evolute e sofisticate dell’uomo, si continua in generale a usarlo con sciatteria, immiserendolo a qualche centinaio di vocaboli, con condimento nel nostro caso di anglicismi a profusione, quando invece le possibilità di parole a disposizione sono migliaia. Porre intelligente attenzione al linguaggio, quindi in definitiva alla comunicazione, non deve sembrare però un esercizio esclusivo per linguisti appassionati. Alla base di molte “divisioni” tra persone, coppie, parti di società, popoli c’è la sostanziale miseria di una comunicazione linguistica non sufficientemente attenta, una mancanza di fantasia nel cercare espressioni linguistiche, in definitiva, parole accurate e sintoniche con la sensibilità di chi ci ascolta, che sia una persona, una parte sociale, una nazione. Esistono, è vero, filosofie del linguaggio raffinate che a diverso titolo indagano le relazioni tra linguaggio, pensiero e realtà, ma purtroppo questa sensibilità resta confinata nell’ambito dei riservati ambienti degli specialisti. S iamo dunque di fronte a una crescente, quasi parossistica, attenzione all’uso del linguaggio (il cosiddetto politically correct) e al tempo stesso alla persistenza di un linguaggio sciatto, fragile (la colonizzazione anglosassone), incapace di restituire la complessità del reale. Il fatto è che il linguaggio è la base della cultura umana. Non è un caso se un uomo di grande cultura come Umberto Eco ha concluso il suo celeberrimo romanzo “Il nome della rosa” con una po- stilla, una sorta di sintesi metaforica del pensiero nominalista: «Stat rosa pristina nomine, nuda nomina tenemus». Il verso (parafrasato dal De Contemptu mundi del XII secolo di Bernardo di Cluny) ha dato luogo a numerose interpretazioni (alcune anche molto origina-li), ma può essere giustamente letto come una sottolineatura dell’importanza delle parole, in fondo vera espressione umana e perciò unico vero possesso della specie. Come a dire, «Sta la rosa primigenia tutta nel suo nome e noi di essa solo il nome possediamo ( nuda nomina tenemus): i nomi, il linguaggio, il modo in cui chiamiamo i diversi aspetti della realtà sono l’unica cosa veramente umana ed è, dunque, l’unica cosa che veramente è nostra.


Se in un corso di preparazione al matrimonio si parla di 'peccato', 'vincolo', 'sopportazione' la partecipazione potrebbe rischiare di essere passiva

Come spesso accade la questione del linguaggio finisce col produrre due schieramenti antitetici: da una parte quanti riconoscendo l’importanza delle parole vorrebbero adeguarle alle nuove sensibilità che si vanno consolidando nella società arrivando, per non offendere nessuno, a configurare una realtà artificiosamente neutra, quando non omologata; dall’altra, quanti proprio perché riconoscono l’importanza delle parole, vorrebbero preservarle dal tritacarne della contemporaneità. Qualcuno potrebbe definirli sbrigativamente progressisti e conservatori, ma sbaglierebbe e di grosso perché le due categorie non riescono a dar conto della ricchezza delle posizioni, e l’innovazione rischia di tradursi in una forma di conformismo sociale, di adeguamento a un modello culturale mainstream, a una scriteriata e falsa neutralizzazione della realtà. L a questione del linguaggio interessa molto da vicino anche le realtà cattoliche; le parole che usiamo possono essere un attrattore potente o allontanare chi ci ascolta, ben lo sanno i parroci “al fronte” nelle periferie urbane ed esistenziali. Facciamo l’esempio spicciolo di un corso parrocchiale di preparazione al matrimonio per più o meno giovani fidanzati- conviventi. Se il corso si apre con un affollarsi di termini come “peccato”, “vincolo”, “sopportazione” e via discorrendo si otterrà probabilmente una partecipazione assente, scontenta, passiva, sterile; se invece introduciamo il corso con termini come “gioia”, “sfida a migliorarsi”, “impegno” (come papa Francesco ci invita a fare in Amoris laetitia) si stimolerà una partecipazione più curiosa e motivata.

Quello che dobbiamo ben comprendere è che la nostra epoca (ci piaccia o no) è caratterizzata da una forte disinibizione della dimensione emotiva: ciò che emoziona è più accettato di ciò che lascia indifferenti, l’aspetto emotivo veicola la percezione e il ricordo: se assisto a un concerto che mi emoziona lo ricorderò a lungo, se invece assisto a un’esecuzione musicale per quanto virtuosa ed eccelsa, ma algida, me ne dimenticherò molto presto. Cercare parole affascinanti per farsi capire non è una strategia poco onesta, è semplicemente intelligente. Su “Avvenire” del 21 novembre 2021 Marina Corradi, in uno splendido editoriale, ci dà una dimostrazione plastica e coinvolgente della tesi fin qui abbozzata: nell’articolo dal titolo eloquente, «Immaginatelo questo figlio», Corradi riesce con le parole a farci sentire tutta la tenerezza straziante di un bambino di un anno morto al freddo nella tenaglia ai confini tra Polonia e Bielorussia («grande come un bambo-lotto, quattro denti appena che si vedono quando la bocca si schiude al sorriso. Sapete, quando traballano incerti e fieri nei primi passi stretti alla nostra mano»).

Nello tsunami del chiacchiericcio politico collettivo, nelle troppe parole ripetute senza costrutto, sarebbe bene cercare nel silenzio interiore il significato vivo, palpitante delle parole scelte: nell’espressione di un sentimento, come in quella di un’idea, in una conferenza come in un’omelia. Le parole hanno una forza trascinante, siamo creativi e coraggiosi nello sceglierle.


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