martedì 15 febbraio 2011
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Ci mancava pure Sanremo. Che torna puntuale come una maledi-zione. Il mondo rotea, il mondo cambia, diceva il poeta: un nero è salito alla Casa Bianca, Mubarak è crollato, un ex-Pci è al Quirinale, l’uomo sta per andare su Marte. E però abbiamo sempre Sanremo. Che una volta almeno era la patria regina del bel canto, oltre che del pettegolezzo, di scandali e scandalucci. Era la settimana che in una dura vita di lavoro e famiglia e cambiali gli italiani si concedevano di carnevale in diretta tv, con il caravanserraglio di star, starlette, e qualche buona canzone. E chi cantava: «Pe’ fa’ la vita meno amara, me so’ comprato sta chitara» esprimeva una verità antropologica in modo semplice e simpatico. Il canto, tra gli umani, è sempre stato un’espressione del desiderio di buono, di bello. Di non amarezza. Una freccia tra il cuore e le stelle. Invece ora – sia per il gossip sia per il canto – il Festival appare quasi ridicolo. Del resto, sul palcoscenico chiamato Italia, in questo posto che è il più bello del mondo, va in onda ormai un festival continuo. Che rende amaro il vivere e renderebbe più urgente la "chitara". Ce lo propinano i media, ce lo propina la classe dirigente, di vario colore. In mezzo al perpetuo festival Italia, quello di Sanremo ormai, nonostante paroloni e spot, appare un pallido fantasma. Anche dal punto di vista delle canzoni, basta pensare all’edizione scorsa... La colpa è di tutti quelli che ci lavorano intorno. In particolare, dei responsabili (discografici, televisivi e anche artistici) del mondo della canzone. Che hanno indebolito Sanremo a favore di altro, che hanno penalizzato la buona canzone per inseguire stereotipi e figurini televisivi. Che hanno ammorbato il gusto del pubblico fino a voler far credere che un Pupo e un Principe fossero un evento o qualcosa del genere. Ma il pubblico è più intelligente dei dirigenti dello spettacolo. E ormai guarda a Sanremo come a un tè con la zia. Un inevitabile passaggio, un obbligo morale non si sa da quale etica assurto a legge. In questa epoca moralista e libertina, va a finire che Sanremo proveranno a trasformarlo in una specie di "baluardo morale". Forse ci dobbiamo aspettare dal palco dell’Ariston – come lo scorso anno la banda dei carabinieri e i pistolotti viscidi di Costanzo – una appello alla rinascita del Paese? Sarebbe una catastrofe. Meglio andare a fondo, con la "chitara" e tutto il resto. Se Sanremo non è più capace di essere il Festival, chiudetelo. Sarebbe l’unico caso di eutanasia accettabile. Se non riuscite a darci un Sanremo divertente, popolare, capace di parlare di cose semplici ma profonde, chiudete la baracca, con fiori e tutto il resto e dite agli italiani una cosa che di solito difficilmente accettano: «Qualcosa è cambiato». Se non ci darete un Sanremo-sagra, un Sanremo-chitara, un tonico per il cuore, una cosa che faccia venir voglia di cantare anche dopo, quando si va al lavoro, in auto con i figli, in cucina quando gli altri stan tutti incavolati, o per strada, insomma se non riuscite a farci venir voglia di cantare, beh, chiudetelo. L’anno dell’Unità potrebbe essere un buon anno per farlo morire. Il buon Morandi ha accettato di diventare, dopo 50 anni di onorata carriera canora, un collega di Baudo e di Frizzi. Speriamo che il suo sacrificio (o il suo eccesso di vanità) serva a far più spazio a canzoni buone. Indicateci un motivo per cantare, o smettete di fare quell’inutile baccano. Qui di caos ce n’è già abbastanza.
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