Ricordiamoci dell'innocenza
martedì 4 febbraio 2020

Battuta infelicissima, e priva di fondamento, quella attribuita al ministro Bonafede sull’inesistenza, in Italia, di innocenti in prigione. Purtroppo, cronache e statistiche sono lì a documentare, anche pesantemente, il contrario: non sono poche le persone pienamente assolte all’esito del processo oppure a seguito di una procedura di revisione, ma soltanto a quel punto tornate in libertà da una detenzione spesso anche di lunga durata. E a cancellare la sofferenza subìta, nella libertà, negli affetti, nella reputazione, non basta la "riparazione" (per lo più in denaro) cui quelle persone hanno diritto. Comprensibile, dunque, che la battuta abbia rinfocolato sferzanti polemiche, coinvolte nel turbinare di eccessi verbali e di grossolanità argomentative di cui fanno sfoggio le opposte tifoserie scatenatesi attorno alla riforma della prescrizione.

Chissà se a frenare la spirale delle esasperazioni gioverebbe, a monte, un maggiore autocontrollo nell’uso di certe parole. A cominciare proprio da quelle, tanto impegnative, di "innocente" e "innocenza", aventi radici profonde e un’eco potente nella coscienza etica collettiva? La legge processuale italiana evita di definirne il significato, ma quelle radici e quell’eco non le sono estranee: nonostante la diversa terminologia le si avverte in trasparenza anche in una distinzione recepita dal codice vigente. Di "assoluzione" è infatti la sentenza dibattimentale che, ad esempio, escluda la commissione del fatto di reato da parte dell’imputato; altra è invece la qualifica, sempre ad esempio, per la sentenza che appunto si limiti a constatare l’intervenuta prescrizione del reato per via del tempo trascorso dalla realizzazione: chi ne fruisce è, sì, a sua volta "prosciolto" ma non "assolto". E peccato che la differenza sia poco o nulla percepibile dall’orecchio dei "non addetti ai lavori", causa l’assonanza fonetica e la sinonimia, nel linguaggio comune, tra i due vocaboli.

Talune garanzie processuali fondamentali fanno poi leva – e qui esplicitamente – proprio sulla nozione di "innocenza" o su quella, antitetica, di "colpevolezza". Si pensi all’art. 27 della Costituzione e all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’uno ammonisce che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»; l’altro, con maggiore incisività benché con minor raggio d’incidenza, proclama che «ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata».

Dalla combinata lettura di tali norme scaturiscono, tra le altre, due conseguenze di assoluto rilievo. La prima è che va assolto non solo chi dimostri positivamente la sua innocenza, ma pure la persona la cui colpevolezza non sia provata «oltre ogni ragionevole dubbio» (ed è vero che così si rischia di mandar liberi dei colpevoli, ma sarebbe ben peggio se, nel dubbio, ad essere condannato fosse un innocente). Inoltre, durante tutto il procedimento penale le condizioni materiali e giuridiche della persona che vi è sottoposta non possono essere le medesime di chi sia stato definitivamente condannato.

Si va oltre il segno quando si dice o si scrive che pertanto l’imputato «è» innocente fino a che una sentenza non lo condanni in via definitiva. A dire il vero, neppure una pronuncia assolutoria passata in giudicato ha il magico potere di cambiare la realtà delle cose sul piano materiale e su quello morale ed errori giudiziari sono anche quelli che vanno a beneficio di chi non si sia riusciti a dimostrare colpevole di un reato, ma in effetti lo è stato (né il sottolinearlo significa appropriarsi della falsa e brutta immagine dell’innocente come colui che "l’ha fatta franca").

Tuttavia, il rispetto dell’autorità giudiziaria e la necessità di scongiurare l’incubo di persecuzioni penali senza fine vogliono che si renda incontestabile giuridicamente il giudicato assolutorio, mettendolo anche al riparo – a differenza di quello di condanna – da possibilità di revisione. Quanto all’imputato tuttora sotto processo, è ancor meno vero che le norme costituzionali e internazionali gli cuciano addosso la vesta bianca dell’innocenza, ed esse stesse si inseriscono in contesti che ammettono palesemente l’uso del carcere in via cautelare; impongono tuttavia che la detenzione in pendenza di giudizio rimanga l’extrema ratio, giustificandosi soltanto in presenza di gravi indizi per gravi delitti e allo scopo di scongiurare pericoli di inquinamento di prove, di fuga o di reiterazione criminosa: così, almeno, è scritto nel codice sebbene non manchino deplorevoli aggiramenti nelle prassi. Ma il monito va ben al di là di ciò: se ne ricordano sempre i gestori della comunicazione, quando preme la tentazione dello "sbattere il mostro in prima pagina"?

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