lunedì 6 luglio 2015
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Caro direttore,il trambusto delle drammatiche vicende greche è sovrastato da un rumore assordante: quello del silenzio nel quale, con poche eccezioni, tra cui il Papa, si trincerano molti soggetti che potrebbero e dovrebbero levare alta la propria autorevole voce contro il vergognoso strapotere del capitale finanziario. Il primato in questa assai poco onorevole gara di latitanza va alle grandi famiglie politico-ideologiche, che portano il merito – e quindi anche la responsabilità – del sogno europeo. In particolare, piange il cuore vedere cosa è diventato il Ppe, ridotto a ricettacolo dei poteri forti, con buona pace di quanti lo appoggiano sulla base della semplicistica equazione per cui questo centro-destra sarebbe la casa politica naturale per un cristiano (come è già avvenuto in Italia, quando si dissolse il contenitore democristiano). Ma subito dopo troviamo le grandi religioni, compresa la nostra e compreso il laicato cattolico (non esclusa, ahimè, la mia amata Azione Cattolica). Con queste premesse, temo che anche il grande Giubileo della misericordia possa finire per essere vissuto come evento puramente intra-ecclesiale, svuotato della sua potenzialità rivoluzionaria: quella di radicare nelle coscienze la convinzione che tutti abbiamo qualcosa da farci perdonare, per cui davvero dell’agenda politico-diplomatica non può non far parte la categoria del perdono. Senza capacità di perdono, i padri fondatori dell’Europa non avrebbero osato guardare oltre la secolare ostilità tra Francia e Germania. E senza perdono, non andremo da nessuna parte, a cominciare dal Medio Oriente, bubbone che alimenta tanta parte delle atrocità e delle sofferenze a cui assistiamo impotenti.Francesco Michelazzo, Firenze
Gentile direttore,da apprendista semi-tecnico, essendo laureato in economia e commercio, tifo Grecia e tifo altresì perché vinca il "no" al referendum di domani. Perché? Perché è giusto che questo euro non venga distrutto ma che imploda, essendo costruito su fondamenti antieconomici e, soprattutto, antisociali in base ai quali l’arricchimento di pochi passa per il crescente impoverimento di molti. Perché è giusto che sia la democrazia la forma di governo e non la tecnocrazia. Perché è giusto che quella mostruosa piovra che è la speculazione finanziaria perda almeno qualcuno dei suoi tentacoli principali. Perché è giusto che l’Europa torni a essere ciò che avevano sognato i Fondatori e cioè una Unione di Popoli e non un coacervo di servi nelle mani di burattinai legati alle multinazionali affaristico-finanziarie. Perché è giusto che l’Europa sia un valore aggiunto ai singoli Stati e non un surplus di demenziale burocrazia che ci vuole imporre, ad esempio, di quanti centimetri devono essere i cetrioli, a che distanza devono essere piantate le zucchine, a quale negozio dobbiamo comprare le sementi, o che apra fascicoli di infrazione perché facciamo il formaggio col latte o perché "pretendiamo" che i prodotti made in Italy siano realmente prodotti in Italia. Per questo non solo, ribadisco, tifo Grecia e tifo "no" ma, correndo pure il rischio di passare per uno degli imbecilli cui di recente faceva riferimento Umberto Eco, di fronte a tutto quello che sta succedendo non posso non dire, gridandolo forte: «Se questa è l’Europa che vogliono, usciamo, usciamo quanto prima!».Luigi F. Rainò, Lecce
L’unità dell’Europa non va spezzata, va realizzata. E il caso Grecia può e deve segnare comunque un punto di svolta lungo questo faticoso e straordinario cammino che oggi, come mai prima nella sua storia, appare gravemente insidiato da una perdita dei valori fondamentali di riferimento, da una imbecille (questa sì) involuzione burocratico–rigorista, da una veemente sfiducia che assume intonazioni rischiosamente populiste. Diverse firme di questo giornale ci hanno già ragionato su nei giorni scorsi, da diverse angolazioni e con differenti intonazioni. Altre lo fanno nell’edizione di oggi. Con schiettezza, con passione e con preoccupazioni frutto di uno sguardo non rassegnato sul difficile passaggio in cui ci troviamo, in cui la patria comune europea si trova. Con questo voglio, cioè, sottolineare che abbiamo già dato alcune risposte non banali ai problemi posti dalla “crisi eurogreca” e riproposti con profondità, ma anche con esplicita durezza, da due lettori colti e motivati come il professor Michelazzo e il dottor Rainò. Che le domande restino e si facciano più acute conferma solo che le analisi possono essere anche molto utili, ma sono le scelte politiche a essere indispensabili. Non ripeto perciò cose già dette e nemmeno quelle che ho scritto ieri in questo stesso spazio di dialogo. Ma mi soffermo su due speciali responsabilità, quella dell’Italia e quella dei cristiani, evocate dalle lettere. Credo, infatti, che ci siano e che debbano essere sentite con particolare e stringente intensità. Gli italiani e i cristiani hanno – laicamente, lo sottolineo – contribuito a dare basi alla stessa idea di solidarietà Europea. La loro voce attutita, la loro capacità propositiva limitata e svalutata, la loro adesione automatica e remissiva ad ambigue variazioni di progetto nel cantiere della “casa comune” è un problema, e un impoverimento. Le ragioni (anche e soprattutto formali e contabili) delle «Unioni» via via perseguite (tutte sul piano economico e finanziario) prevalgono su quelle delle «Comunità» (aperte per vocazione anche all’integrazione politica). E Comunità, io credo, è e resta il primo e più vero nome dell’Europa unita dei popoli. Parlarne oggi, mentre i greci votano un referedum che li farà scegliere tra due ultimatum insensati (ultimo frutto di opposte furbizie calcolatrici e cialtrone), non è solo un’esercitazione lessicale, è un convinto esercizio di speranza. Ma ci sono ancora politici che hanno voglia di pensare la vera Europa e di battersi per realizzarla, facendoci sentire idee e non signorsì o schiamazzi?
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