lunedì 29 giugno 2015
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L’annuncio del primo ministro greco, Alexis Tsipras, di un referendum popolare – da convocarsi per il prossimo 5 luglio – sulle proposte dei creditori della Repubblica ellenica ha provocato la rottura del negoziato con la Ue e rischia di innescare il definitivo default del Paese, con conseguenze al momento non ancora immaginabili. Una mossa che il governo di Atene rivendica sul piano politico come una scelta di democrazia, quasi l’unica possibile, la più giusta.Non una novità assoluta, peraltro. Già nel dicembre 2011, infatti, l’allora capo del governo greco, il socialista Georgios Papandreu, aveva ipotizzato un referendum sulle condizioni che l’Europa aveva imposto alla Grecia dopo l’esplosione del suo debito pubblico, utilizzando un potere che l’art. 44 della Costituzione greca riconosce alla maggioranza parlamentare, su proposta del Consiglio dei ministri, quando sono in gioco «questioni di cruciale importanza nazionale». L’argomento in favore di tale procedura era – allora come oggi – quello di ottenere l’espresso consenso dei cittadini su misure di austerità aventi un impatto negativo sulle prestazioni sociali loro erogate. La fermezza del governo tedesco e della Commissione Ue (in questo motivata, e non esito di sottovalutazioni iper-rigoriste manifestate in altri passaggi della gestione del dossier Grecia) aveva allora fatto saltare la mossa di Papandreu, percepita come meramente dilatoria (dopo che i governanti greci avevano bruciato il proprio capitale di credibilità truccando per anni i conti del bilancio) e aveva aperto la via al "commissariamento" di Atene, con il governo Papademos. Oggi Tsipras riprende l’arma non utilizzata allora, dopo che per vari mesi lui e i suoi alleati hanno sostenuto l’esigenza di modificare i vincoli di bilancio (produrre ogni anno un avanzo primario, vale a dire al netto degli interessi, del 3,5%, per rendere in prospettiva gestibile l’enorme debito pubblico) con l’argomento che il popolo greco lo ha espressamente imposto con il mandato conferito a Syriza nelle elezioni parlamentari dello scorso gennaio.L’argomento democratico – sia nella sua variante elettorale, che in quella referendaria – è senza dubbio forte e rimanda al diritto fondamentale di un popolo di governarsi da sé. Esso, inoltre, ha un fascino particolare se viene formulato nel Paese che ha inventato 2.500 anni fa la parola e il concetto di democrazia. Esso è tuttavia collocato in un contesto ambiguo: ciò che il governo greco – su mandato dei cittadini ellenici – sta chiedendo oggi è di gestire i diritti sociali (stipendi pubblici, pensioni, tasse) secondo le proprie preferenze non con le proprie risorse, ma con il concorso economico di altri soggetti, sia internazionali (il Fmi), sia sovranazionali (la Bce e la Ue, tramite il Fondo salva-Stati), in ultima analisi finanziati con il denaro di contribuenti di altri Paesi (fra cui quelli italiani). Per essere un po’ brutali: più diritti, ma con i soldi degli altri. Qui, però, l’argomento democratico appare del tutto fuori luogo. La democrazia rappresentativa dei moderni nasce attorno al principio no taxation without representation: si eleggono deputati perché, in nome di coloro che li hanno eletti, essi possano incidere sul patrimonio e sul reddito degli elettori mediante l’esercizio del potere fiscale. Ma ciò comporta che vi sia corrispondenza tra taxation e representation, cioè tra tassazione e rappresentanza. La rivoluzione americana, in fondo, nasce dal rifiuto dei coloni inglesi del Nord-America di pagare tasse deliberate da un Parlamento, quello di Londra, in cui essi non eleggevano rappresentanti. Ora la singolare concezione della democrazia made in Syriza suona pressappoco così: attraverso la rappresentanza politica (e oggi il referendum) i greci rivendicano il diritto scaricare il costo dei propri diritti sociali sugli elettori di altri Paesi. Forse qualcosa nel ragionamento non funziona.Il referendum, infine, presenta un altro profilo discutibile: con esso solo apparentemente il governo greco chiede agli elettori di decidere liberamente; in realtà sta chiedendo loro di sgravarlo della responsabilità di accettare condizioni che in gennaio riteneva inaccettabili, dopo aver vinto le elezioni in base all’idea di poter imporre ai partner europei il cambiamento di quelle stesse condizioni. Oltre a scaricare il costo del proprio welfare su altri Paesi, Tsipras, come ha notato la versione inglese del quotidiano Ekatimerini, fugge dalle sue responsabilità e scarica il peso della decisione sul popolo greco. Insomma, il gioco democratico di Syriza è truccato e rivela scarsa dimestichezza con i princìpi delle democrazie liberali.>
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