Razzismi e non solo, mai confondere i sintomi (anche gravi) con il male
mercoledì 11 dicembre 2019

Gentile direttore,
la senatrice Liliana Segre è, dunque, sotto scorta. E dopo la morte di Piero Terracina, vigoroso e indomito testimone della Shoah, dice di sentirsi sola e di temere il dilagare della smemoratezza. Esattamente come nel secolo scorso, fascismi e razzismi alzano la testa all’indomani di una straordinaria crisi economica e finanziaria. Già questo dovrebbe farci riflettere su quanto le libertà civili e politiche siano spesso considerate un mero strumento, non fini in sé. Strumenti per accedere al consumo, organizzare la produzione, coordinare gli individui, ma poco altro. E quando l’economia capitalistica non mantiene le sue promesse di benessere, quelli che dovrebbero essere dei princìpi non negoziabili vengono abbandonati come un utensile che ha fallito il suo compito. Emergono destre che agitano con venefica finzione il monopolio su valori e identità. Lo fanno massificando, sfruttando il malcontento, facendo ricorso al cinismo. Può bastare, a fronte di tutto ciò, un generico appello alla cultura, intesa come sapere nozionistico – non visione del mondo –, o l’emotiva evocazione del “restare umani”? È stupefacente, e sotto i nostri occhi, il modo in cui le riflessioni di pensatori dello scorso secolo siano attuali. Ma la filosofia è ormai una disciplina accademica iperspecialistica, studiata da pochi, lontana dalle masse. Hannah Arendt ci aveva avvisato del fatto che il lavoro è solo la prima e la più elementare delle forme di vita attiva, di cui l’azione e il discorso sono il livello più elevato. Ma le sinistre, da decenni, limitano il proprio compito a creare lavoro – quando vi riescono –, mai occupandosi di rendere le professioni un modo per gli individui di esprimersi, di contribuire al mondo, superando la loro alienazione e il loro isolamento. Si continua a parlare di “mercato del lavoro” e “risorse umane”. Insomma, la forma merce permea l’opposizione a ciò che fiorisce dove non si dispone di abbastanza merci. Max Horkheimer e Theodor Adorno sollevarono il velo di una razionalità che è mero calcolo, semplice analisi costibenefici. E, mentre analizzavano i caratteri distruttivi della personalità autoritaria e del nazismo sotto i loro occhi, ravvisavano un pericolo non minore nella scomparsa dell’individuo, nel monopolio della mente tecnologica su ogni orizzonte di senso, nell’industria culturale – espressione utilizzata con voluttà da chi oggi si occupa di Rai. Pier Paolo Pasolini parlò, suscitando indignazione o peggio indifferenza, del nuovo fascismo del consumo di massa, che creava quartieri dormitorio e omologazione dei costumi. Ma, non più di qualche mese fa, un autorevole politico del Pd definì quella di Pasolini una «ideologia», come se appunto la sinistra non possa essere che celebrazione del consumo come sola forma di uscita dalla povertà (per quanto probabilmente costoro sappiano che la miseria può convivere benissimo anche con la ricchezza). Anche oggi, la tecnica serve l’economia, come strumento per aumentare la produttività. Ma anche come compensazione che consente a miliardi di persone di illudersi di essere in contatto con i propri simili, quando tutto li divide da essi. E la politica, ormai mero prodotto di marketing, è serva anch’essa dell’idea di un benessere puramente materiale, mai arena dello scontro e dell’incontro delle vite. Insomma, chi oggi si scandalizza a ragione del ritorno dei fascismi propone di eliminare dei sintomi: velenosi, inaccettabili, ma dei sintomi. Di un sistema che è dato per ineliminabile, e anzi considerato il solo mondo possibile.

Marco Senatore Roma

Prendo tutto il buono che c’è e che è tanto, gentile amico, nel suo lucido appello a non fermarsi alla denuncia e a non limitarsi a curare appena i sintomi di un male vecchio e ritornante, ma ad andare a fondo, individuando il nodo vero, capendo il “punto”. Il punto, già. Per me – che non sono filosofo e neppure economista, ma solo un cronista di questo tempo – il punto non è esattamente la “scomparsa dell’individuo”, ma il trionfo dell’individualismo e di un individualismo di massa e persino “di popolo” (che cos’altro sono i nazionalismi se non un individualismo all’ennesima potenza, un umanesimo annichilito, un violento anti- personalismo?). Possiamo purtroppo parlare – e c’è chi lo fa assai bene – di progettata, anzi premeditata, “scomparsa della persona”, cioè dell’uomo e della donna come essere-in-relazione: padre, madre, figlio e figlia, fratello e sorella, concittadino (dove il prefisso “con” è decisivo). Non hanno vinto, anche se dicono di avere la vittoria in tasca e si muovono da padroni sulla scena e lungo i canali mediatici del nostro tempo e trovano alleati e complici insospettabili e in parte inconsapevoli, come già fu un secolo fa, in pezzi del mondo che alza le bandiere delle libertà e dei diritti. Non hanno vinto, anche se il loro schema funziona per catturare adepti e voti e accomodamenti. Non hanno vinto, anche perché è sempre più chiara la pretesa disumanizzante che anima il progetto: classificare gli esseri umani in “categorie” e in “profili” e rinchiuderli in “scatole” da incasellare, discriminare, scartare, saccheggiare e usare. Il giornale che sto facendo coi miei colleghi – in questi dieci anni di direzione di “Avvenire” – è anche una lunga documentazione e riflessione su questo dolentissimo “punto”. Perché so che non hanno ancora vinto. E la partita della giustizia, della speranza, dell’umanità è aperta, e deve restarlo.

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