mercoledì 20 gennaio 2010
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In questi giorni Avvenire ha riferito di numerosi missionari italiani presenti nell’isola, in passato "la perla dei Caraibi" e oggi uno dei Paesi più poveri del mondo, al fondo degli elenchi dell’Onu per ricchezza, sicurezza e livello di vita. La situazione è peggiorata dopo l’apocalittico terremoto che ha quasi azzerato la capitale Port-au-Prince e Haiti è un Paese in cui è difficile persino sopravvivere. Eppure le voci dei missionari e delle suore dicono, quasi all’unisono, che là sono e là rimangono. È un fatto che colpisce e sul quale bisogna riflettere. Perché non se ne vanno, ora che ne avrebbero "il diritto" e la possibilità? Un operatore dell’Onu ha dichiarato: «Me ne ritorno a casa, qui è diventato un inferno e sono troppo stressato, non potrei resistere a lungo». È comprensibile. Ma perché in Haiti i missionari e i volontari che vivono e lavorano con loro rimangono?Perché sono persone innamorate di Gesù Cristo e del popolo al quale la Chiesa li ha mandati. Senza una forte carica di fede non si resta per anni e anni in certi Paesi. La missione, prima di annunciare Gesù, è stare con un popolo, impararne la lingua, condividerne i costumi e lo stile di vita, amare quei fratelli e quelle sorelle, pronti a dare l’esistenza per loro, come ha fatto Gesù. In passato, negli istituti missionari si partiva "per la vita". I padri e fratelli del Pime destinati alla missione di Kengtung in Birmania, in territori pericolosi e selvaggi nel "Triangolo dell’oppio" (fra Birmania, Laos e Thailandia), quando su una zattera attraversavano col cavallo il grande fiume Salween si inginocchiavano, baciavano la terra e leggevano una preghiera che dice: «Questa è la mia nuova patria. Signore dammi la grazia di amare questo popolo e di non tornare più in Italia». Oggi sono ammesse vacanze di alcuni mesi per salute e per studio ogni tre-cinque anni, ma lo spirito è quello di sempre: donare la vita a un popolo, per duro e ingrato che sia.La catastrofe di Haiti ha messo in rilievo una realtà di cui poco si parla nelle cronache quotidiane: in questa nostra Italia che viene raccontata, e in parte certo è, in crisi di umanità e di vita cristiana, ci sono famiglie e parrocchie che ancora e sempre "generano" uomini e donne capaci di dare la vita per gli altri e a diventare con loro "noi". L’Italia è molto migliore dell’immagine negativa che ne danno stampa e televisione.Nel 1976, nella diocesi di Moundou in Ciad, fui al fianco per due giorni di padre Jean, cappuccino canadese che a bordo della sua moto mi fece visitare i villaggi in cui esercitava la sua missione. Gli dissi che mi sembrava eroico vivere da vent’anni in mezzo a quella popolazione così povera e analfabeta, in quei villaggi di fango e di paglia. Lui mi rispose con una risata: «Ma cosa dici? Tu vedi gli aspetti esterni di questa mia gente, ma qui c’è una ricchezza di umanità e di fede che ti consola, ti dà gioia. Invece in Canada la stiamo perdendo». E io pensai: «Ecco un missionario autentico che testimonia e trasmette la fede in Cristo con la vita».Per concludere, due considerazioni. Primo: missionari, suore e volontari sono i migliori rappresentanti del nostro popolo, in Haiti e in molti Paesi del Sud del mondo. Secondo: perché stampa e televisione, scuole e famiglie, trascurano la testimonianza di questi "eroi positivi" di cui i nostri giovani hanno tanto bisogno per un’educazione all’amore del prossimo e alla gioia del vivere?
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