venerdì 1 agosto 2014
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Si comincia finalmente a parlare dei fucilati nella prima guerra mondiale. Nei giorni scorsi questo giornale con una serie di articoli di Giovanni Grasso ha aperto la discussione, intervistando storici e politici. Qualche mese fa, Elisa Bianchi e altri studiosi avevano lanciato un appello per riabilitarne la memoria, sostenuto anche dalla Sissco, l’associazione degli storici contemporaneisti. Il velo di silenzio che circondava i fucilati della Grande Guerra era stato squarciato, per la prima volta, molti anni fa da Alberto Monticone ed Enzo Forcella, che nel 1972 pubblicarono un libro coraggioso: Plotone d’esecuzione. Altri studiosi hanno recentemente ripreso e approfondito il problema. Era, però, finora mancato in Italia – a differenza di altri Paesi – un atto ufficiale da parte dello Stato per riabilitare la memoria dei morti per mano italiana e per ordine dei superiori. E ora Avvenire  ha posto con forza il problema, nel centenario della prima guerra mondiale.  Durante la Grande Guerra fucilazioni sono accadute in tutti gli eserciti, ma nel caso italiano è successo più frequentemente che altrove. Si veniva uccisi in questo modo per molti motivi diversi: per aver commesso reati gravi o per aver mostrato poco coraggio, ma anche senza nessun motivo, a seguito di un processo, seppure sommario, ma anche senza nessun processo e così via. In genere a essere uccisi sono stati gli inferiori, mentre erano per lo più ufficiali quelli che decidevano l’esecuzione. Insomma, sono stati di regola i più poveri e i più deboli a venir colpiti. Tante storie tristi, tante vicende dolorose. È sempre triste morire, è ancor più doloroso venir uccisi. Ma in questo caso si aggiungono l’infamia e l’oblio. Chi è caduto per la Patria ha diritto all’onore e al ricordo, a nulla ha invece diritto chi è stato ucciso dalla Patria. Le fucilazioni fanno parte delle leggi della guerra, si dirà. È vero, ma le leggi della guerra non hanno lo stesso valore di quelle della pace: sono più brutte, sono meno giuste. Nelle fucilazioni della prima guerra mondiale si mischiano due modi sbagliati di ricorrere alla violenza che uccide: per risolvere le controversie internazionali (la guerra) e per mantenere l’ordine sociale (la pena di morte). Sia sulla prima sia sulla seconda si discute e si riflette da molto tempo, guerra e pena di morte non sono più scontate come lo erano un secolo fa (anche se purtroppo ci sono ancora in molte parti del mondo). Ma queste discussioni e queste riflessioni non hanno ancora incrociato il caso di chi è stato vittima di entrambe nella prima guerra mondiale.  Non si tratta di equiparare i fucilati a coloro che sono morti per difendere il proprio Paese. I primi non sono stati eroi. Sono stati però vittime della grande violenza che ha sconvolto tutta l’Europa un secolo fa e della piccola violenza di superiori che non si sono assunti le loro responsabilità. Il caso dei decimati dopo la sconfitta di Caporetto è emblematico. Quella sconfitta fu conseguenza dei gravi errori compiuti dagli alti comandi militari, ma a pagare furono semplici soldati senza colpa: uno ogni dieci venne destinato per sorteggio alla fucilazione per 'dare l’esempio'. Non c’è mai stata un’autocritica ufficiale per tutto ciò. Dal ministro Pinotti è venuta un’apertura importante. Si parla di una commissione di studio – che non deve essere composta da soli militari, ma deve comprendere anche storici estranei all’esercito – per fare piena luce. Ma c’è bisogno di arrivare al più presto a un atto ufficiale dello Stato, per chiedere perdono a quei fucilati e per riconoscere colpe che ancora non sono state riconosciute.  Alla guida del governo italiano c’è oggi una nuova generazione che rimprovera alle precedenti di non essere stata all’altezza delle proprie responsabilità.  Questa vicenda offre ora a questa nuova generazione l’occasione per dimostrare che sa che cosa vuol dire responsabilità, che è capace di assumersela anche per ciò che hanno fatto altri e che si impegna a esercitarla in modo opposto a come è stato fatto con i fucilati della Grande Guerra.
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