venerdì 17 ottobre 2014
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Dopo una lunga serie di pretestuose esitazioni e di rinvii, l’Alta Corte di Lahore (Pakistan) ha respinto il ricorso dei legali e confermato la condanna a morte di Asia Bibi. Per la donna cristiana madre di cinque figli, messa in carcere nel 2010 in base alla terribile legge sulla blasfemia, l’unica possibilità resta ormai la Corte Suprema, terzo e definitivo grado del sistema giudiziario pakistano. Onestà impone di dire che a questo punto le speranze per Asia Bibi non sono molte, per le stesse ragioni che l’hanno tenuta in galera finora. La legge sulla blasfemia è così vaga e pretestuosa da prestarsi a ogni sorta di abuso: da parte degli accusatori (che la usano quasi sempre per regolare questioni private), dei giudici (fanatici o pavidi) e anche di chi gestisce le carceri.Negli ultimi mesi sono stati uccisi in cella due uomini detenuti per blasfemia. Un musulmano di 65 anni, Khalil Ahmed, è stato eliminato da un ragazzo che, curiosamente, era riuscito a entrare nella prigione armato di pistola. E un cittadino scozzese di 69 anni, Muhammed Asghar, con precedenti di malattia mentale, è stato ferito a morte da una guardia. La legge, che diventa micidiale con gli esponenti delle minoranze religiose come i cristiani, è peraltro spietata anche con i musulmani, che formano a oggi la maggior parte delle sue vittime.Ma la ragione di fondo per cui non si riesce a curare questa piaga è un’altra: la debolezza delle autorità nei confronti dell’onda montante dell’estremismo islamico. Tutti certo ricordano i casi di Shabhaz Bhatti, il cristiano ministro delle Minoranze, e di Salman Taseer, il musulmano governatore del Punjab, che nel 2011 furono assassinati per aver difeso proprio Asia Bibi. Ma forse pochi sanno che Muntaz Qadri, la guardia del corpo che assassinò il governatore Taseer, vive in carcere da eroe, rispettato e onorato; e che un noto esponente religioso islamico ha potuto mettere una taglia di 6 mila dollari sulla testa di Asia Bibi senza essere minimamente "disturbato" dalle autorità.Possiamo pensare che Nawaz Sharif, primo ministro del Pakistan, sia indifferente alla sorte degli imputati di blasfemia, essendo cresciuto nella dottrina wahhabita di stampo saudita, forse la più integralista del mondo islamico. Ma solo la paura può spiegare come il presidente Manmoon Hussain, uomo colto e con fama di grande integrità, incarcerato durante la dittatura militare per le sue posizioni a favore della democrazia, riesca a esaltare il Nobel per la Pace assegnato alla pakistana Malala e, pochi giorni dopo, a tacere sul sopruso compiuto ai danni della pakistana Asia Bibi, perseguitata per il semplice fatto di essere cristiana dalla stessa ideologia che voleva mettere a morte Malala per il semplice desiderio di avere un’istruzione.Questa impotenza, per non dire vigliaccheria, dello Stato pakistano – un grande Stato – nei confronti degli estremisti islamici è, oggi, uno dei fattori di rischio più forti del subcontinente indiano, oltre che la vera ragione per cui gli Usa si apprestano a lasciare in Afghanistan, dopo il ritiro delle truppe internazionali, un contingente di quasi 15mila uomini. Quei soldati serviranno a custodire gli afghani ma soprattutto a tener d’occhio il Pakistan, minacciato appunto dalla deriva di cui la vicenda di Asia Bibi e quella di Malala sono dolorosi indizi, ma che guadagna spazi crescenti di impunità in molte regioni del grande Paese.Difficile capire come il governo di Islamabad pensi di riprendere in mano la situazione e mettere le redini agli estremisti quando non riesce nemmeno a salvare la vita a una madre che, se anche tornasse libera, dovrebbe andarsene dal Pakistan per non essere uccisa in strada. Ancor più difficile pensare di stare tranquilli se appena pensiamo che il Pakistan possiede la bomba atomica e che il suo arsenale nucleare, di questo passo, potrebbe finire nelle mani degli stessi che oggi usano la legge sulla blasfemia come una clava contro la libertà di culto e, anzi, contro la libertà stessa. C’è tutto questo dietro il "caso Asia Bibi". Una vita diventata, appunto, esemplare: sia per chi vuole spegnerla, sia per chi vuole salvarla.
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