domenica 8 maggio 2016
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La precipitosa parabola discendente del premier turco Ahmet Davutoglu – destituito nello spazio di un mattino dopo nemmeno due anni alla guida del governo – ha tutto sommato avuto il pregio di chiarire definitivamente al mondo quanto fosse profonda la svolta autoritaria impressa alla Turchia dal presidente Erdogan: un uomo ormai solo al comando che è al contempo leader politico (l’Akp, il Partito per la giustizia e lo sviluppo di cui è al vertice gli ha garantito tre volte un successo elettorale plebiscitario), presidente della Repubblica e uomo forte che aspira alla modifica della Costituzione per assumere il controllo totale della nazione. Una deriva che era già ben chiara da almeno un paio d’anni, da quando cioè Erdogan era stato costretto ad accantonare il sogno neoottomano di assumere il ruolo di arbitro della regione, frantumatosi di fronte alla rovinosa partecipazione in chiave anti-Assad alla crisi siriana, alla guerra civile con i curdi del Pkk, alle ambiguità mostrate nei confronti del Daesh (formalmente un nemico, in realtà – come dimostrato dalle inchieste giornalistiche – spesso rifornito di armi e finanziamenti), all’inaspettato ritorno dell’Iran sulla scena politica internazionale e alla profonda crisi delle relazioni con la Russia di Vladimir Putin, che di fatto gli ha sfilato dalle mani il ruolo di grande player nel Medio Oriente. Ma più perdeva mordente all’esterno più Erdogan – quasi per un fatale contrappasso – serrava la morsa del suo potere all’interno del Paese. Le recenti condanne di due giornalisti del quotidiano d’opposizione Cumhuriyet per rivelazione di segreto di Stato nel processo per il passaggio di armi dei servizi segreti in Siria, la normalizzazione forzata di Zaman, altro foglio ostile al regime che fra una settimana potrebbe chiudere i battenti per pneumatico vuoto di lettori dopo che proprietà e direzione sono state sostituite manu militari nell’assordante silenzio di Bruxelles non fanno che allungare la lista dei giornalisti arrestati per aver scritto e pubblicato frasi e concetti giudicati eversivi: erano 76 già nel 2012, un record mondiale, più ancora che in Iran e in Cina, ma il numero attuale è probabilmente cresciuto. Non solo: tra pochi giorni si voterà un emendamento della Carta fondamentale per togliere l’immunità ai parlamentari indagati, mossa chiaramente concepita contro i deputati del partito filo-curdo Hdp, che rischiano il processo per collusione con il terrorismo. Con l’uscita di scena di Davutoglu, considerato troppo moderato e troppo incline alla mediazione con l’Occidente, la satrapia di Erdogan (ormai libera anche dell’influenza del suo più acerrimo rivale, Fetullah Gülen, che vive in esilio negli Stati Uniti) pare assumere la sua fisionomia definitiva, con buona pace di quell’Europa che si è eternamente sforzata di chiudere gli occhi sulla trasformazione della Turchia da nazione laica e kemalista a potentato fondato sul consenso delle classi medie (premiate da un boom economico durato quasi dieci anni) e dell’arretrato corpaccione anatolico (che sovrappone la legittima osservanza religiosa all’immagine vittoriosa del presidente). Abile come tutti i populisti e i dittatori nel fabbricare di continuo nemici e pericoli – di volta in volta i curdi, la stampa, il complotto interno dei nostalgici di Atatürk – Erdogan può fare affidamento sia sul diffuso consenso nelle élites del Paese sia sul clima di incertezza e di paura che predomina fra i suoi oppositori. Ma soprattutto può contare su due circostanze che si possono trasformare (e di fatto ormai lo sono) in due formidabili armi di ricatto: la guerra al Califfato in Siraq e la gestione di profughi e migranti. In entrambe il ruolo della Turchia è cruciale. Per questo Erdogan può alzare a piacimento la posta con Bruxelles, sia per ciò che concerne l’iter del negoziato di adesione all’Unione Europea sia per la liberalizzazione dei visti: in palio c’è il mantenimento di un accordo complicato, imperfetto e oneroso, ma comunque indispensabile. Nondimeno la sempre più pronunciata deriva autoritaria fa giustamente dire a Matteo Renzi che «la questione migratoria è tutt’altro che risolta: quello che accade in queste ore in Turchia pone un interrogativo sull’accordo tra Ue e Ankara». Interrogativo che tutti ci poniamo. E che vorremo risuonasse chiaro e forte e non rimanesse chiuso al di là delle Alpi nelle stanze di compensazione del potere per un mero calcolo di bottega.
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