domenica 11 luglio 2010
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Caro direttore,uno dei passaggi più noti della Regola di san Benedetto (la cui memoria cade il prossimo 11 luglio) è quello in cui invita a "cercare Dio" (quaerere Deum – Regula 48,7). Cosa può significare questa affermazione in un’epoca come la nostra, se non incredula almeno indifferente al tema di "Dio"? Essa fa suo l’appello a inserire una verticalità laddove tutto sembra essere opera dell’uomo e svilupparsi su un piano pienamente orizzontale. Quaerere Deum nel XXI secolo è pensare questa possibilità altra, sentirla come un’apertura contro il soffocante gioco del solo umano. Equivale a credere che ci sia una giustizia che non sia solo quella amministrata dall’uomo; che ci sia la possibilità di una verità laddove egli fallisce sempre, se non per cattiveria, per il suo proprio limite. Quaerere Deum non è ammettere e affermare Dio, che mai riusciremo a dimostrare o a immaginare, ma semplicemente sentire uno sbocco, una via di fuga all’oppressione di giorni monotoni e fissi, sempre uguali, di una vita che si ripete e si riproduce e il cui senso non può essere tutto il senso a meno di non pensare a essa con una estrema povertà. Quaerere Deum è garantirsi uno spazio altro, fare spazio attorno alle nostre cose, creando un alone che le sottragga alla loro deperibilità, alla loro nullificazione mentre ancora sono, mentre già sono. Non si tratta dunque di sviluppare una teologia ma solo di alimentare una possibilità, di crearsi un modo di pensare che ammetta la possibilità dell’Altro, del Terzo che trascende tutti i nostri atti e la nostra misera realtà, di un Qualcuno che per il solo fatto di esistere come possibilità, la salva dalla pura reificazione e le concede il respiro di uno spirito, animandola e rianimandola. Questo può essere il quaerere Deum, il "cercare Dio", dell’uomo di oggi; esso è meno un atto di fede che un modo di affrontare la realtà per non degradarla a ciò che è la sua semplice percezione, per ridare dignità ai cammini dell’uomo, non più sentieri tracciati nella sabbia, ma vie a cui è sottesa la possibilità di un senso e di una direzione, a cui è promesso il premio di una meta.

Lucio Coco, Bée (Vb)

La ringrazio per la sua intensa riflessione, caro professore. Anche perché mi ha spinto a ritornare – riproponendola qui in piccola parte – a quella splendidamente sviluppata da Benedetto XVI a Parigi, il 12 settembre 2008, quando parlò del «Grande Sconosciuto» agli accademici francesi riuniti al Collège des Bernardins. «La cosa nuova dell’annuncio cristiano – spiegò il Papa – è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente – concluse Benedetto XVI – occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio».
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