sabato 1 giugno 2013
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Vengono in mente certe foto in bianco e nero: ragazzi con i jeans larghi in fondo che ciondolano tra piazza e bar, assieme ad atmosfere cupe come gli anni di piombo. Pen­sare che i disoccupati abbiano superato ab­bondantemente i 3 milioni – un record dal 1977 – è una sconfitta difficile anche solo da immaginare. Oggi che il mondo non solo lo fotografiamo a colori, ma possiamo spedire quell’immagine con il telefonino in tutto il pianeta, abbiamo oltre il 40% dei giovani di­sponibili a lavorare costretti a ciondolare, tra un centro commerciale e un fast food. In 36 anni è il peggiore dei fallimenti: anziché co­struire una società e un’economia inclusive abbiamo un’intera generazione in stand–by, e dal futuro già ipotecato. Perché i ragazzi che entrano tardi nel mondo del lavoro, nono­stante alti livelli di istruzione, avranno poi sti­pendi minori rispetto alla media, faticheran­no a formare nuclei familiari autonomi, a­vranno pensioni più basse e saranno perfino maggiormente esposti ai rischi di povertà. Questo ci dicono i dati dell’Istat pubblicati ieri, in coincidenza non solo temporale con la relazione del governatore della Banca d’I­talia. Nella quale Ignazio Visco ha sviscerato il vero dramma del Paese: «Non siamo stati ca­paci di rispondere agli straordinari cambia­menti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi venticinque anni». E ora «l’ag­giustamento richiesto ha una portata storica». La miopia ci ha impedito di vedere ciò che sarebbe stato bene fare per i nostri figli, la no­stra più che ventennale inerzia spegne, ora, le loro speranze, ne mortifica le energie, get­ta tutti noi in una cupa incertezza. E allora una giornata come questa dovrebbe poter segnare uno spartiacque, la presa di co­scienza definitiva che non si può più tergi­versare o limitarsi a qualche aggiustamento. Sull’occupazione non possiamo più pensare che basti approvare una norma di legge per “creare” posti di lavoro sicuri e garantiti. Occorre invece operare per stimolare la creazione di occasioni d’impiego, accompagnare i giovani nella transizione tra scuola e lavoro, agevolare e tutelare chi ha il coraggio di far nascere un’impresa da un’idea o sceglie di mettersi in proprio. E quindi bene rimettere mano alle norme sui contratti a termine e allentare quei vincoli che negli ultimi mesi hanno finito per aggravare gli effetti negativi della crisi. Ma non illudiamoci che basti una staffetta tra lavoratori presunti “anziani” e giovani da assumere part–time per risolvere il dramma della disoccupazione. È necessaria invece un’assunzione di responsabilità di tutte le istituzioni e le parti sociali, con un “pensiero lungo”, capace di superare gli interessi particolaristici. Quattro sono le direttrici per l’occupazione: semplificazione e tutela nel mercato per i professionisti, i free–lance, gli addetti ai servizi alla persona, che il lavoro sanno crearselo ma hanno bisogno di avere un fisco “amico” e qualche certezza previdenziale per i periodi di inattività. Poi un vero investimento nei servizi di orientamento e incontro domanda–offerta, integrando servizi pubblici e privati, premiando chi effettivamente colloca un giovane al lavoro. Ancora, dare priorità assoluta al nuovo apprendistato: va recuperata quella cultura del “fare bene” – la si impara a bottega (o in fabbrica), da un maestro – che ha fatto la fortuna del made in Italy, artigianale e industriale. Infine, concentrare sforzi e risorse per abbassare la pressione fiscale sul lavoro. Che senso ha condurre una battaglia per restituire qualche centinaio di euro di Imu sulla prima casa, quando un’Irpef dieci volte più consistente mortifica il potere d’acquisto dei salari e compromette, a volte, l’esistenza stessa di un posto di lavoro? Ieri, il presidente del Consiglio ha annunciato un piano straordinario per i giovani entro il mese. Poche ore dopo Cgil, Cisl, Uil e la Confindustria hanno firmato un’intesa quasi “storica” sulla rappresentanza sindacale, premessa per nuove relazioni industriali e un recupero di produttività. Speriamo siano segni di una ritrovata consapevolezza. Perché il futuro non assomigli a una foto in bianco e nero degli anni di piombo. ​
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