Tutti vittime. Tutti colpevoli. Dipende da chi è a puntare il dito. Studenti, insegnanti e genitori sono diventati irriducibili nemici: manipoli di bulli che si fronteggiano armati di parole pesanti e che qualche volta – sempre meno raramente – dalle parole passano ai fatti.
I bollettini di guerra sono affidati alle cronache: maestre che maltrattano i bambini di cui dovrebbero avere cura, adolescenti che umiliano i docenti invece di prenderli a esempio, genitori che schiaffeggiano chi osa criticarne i figli. Un fallimento conclamato. Anzi, tanti fallimenti conclamati: della relazione, dell’educazione, del principio di responsabilità.
Falliscono diversi insegnanti: schiacciati da un sistema che mette al centro la burocrazia, raramente valorizzati e sistematicamente frustrati, finiscono – e come dar loro torto? – col lasciare che si spenga la passione per l’insegnamento che certo li aveva spinti a varcare la soglia di una classe. Rinunciano all’autorevolezza, esercitano l’autorità – quando ci riescono – che non li rende amati, tantomeno ammirati.
Falliscono certi genitori: incapaci di mantenere la giusta distanza, abdicano al ruolo di padri e madri calandosi in quello del compagno di scorribande, dell’amicone, del complice. Il pargolo ha sempre ragione, specie quando non ce l’ha. Il loro obiettivo – e neppure a loro si può dare torto – è la soddisfazione dei figli, e sono disposti a tutto per garantirla: fanno finta di non sapere che la soddisfazione più dolce è quella che ti conquisti, non quella che ti regalano.
Falliscono non pochi ragazzi: convinti che si possa crescere da soli, sacrificano alla comodità di un presente senza impegno un futuro che non si ottiene senza fatica. Occasioni che non tornano. Ma tutti sono vittime. Tutti sono colpevoli. Il professore frustrato che non ha più voglia di insegnare, il genitore dimentico di sé e del suo ruolo educativo, il ragazzo prepotente sicuro dell’impunità potrebbero continuare a crogiolarsi ciascuno nel proprio brodo di coltura se facessero male solo a se stessi. Invece, i danni – voluti o collaterali – non si contano.
Danni che nessuno risarcirà: per quanto un giudice potrebbe anche stabilire un indennizzo, l’insegnante sfregiata riuscirà più a guardare i suoi studenti con gli stessi occhi? La bambina presa a schiaffoni dalla maestra sarà ancor capace di fidarsi degli adulti? Sono responsabilità massicce a pesare su quanti si fronteggiano in queste trincee della scuola.
Responsabilità, concetto cardine della filosofia morale: la possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e di correggere quest’ultimo sulla base di tale previsione. Siamo liberi di scegliere quale comportamento tenere, siamo liberi di agire per il bene o per il male. La seconda opzione non è – non deve essere – senza contraccolpi: questo tutti dovrebbero avere ben presente.
Gli adulti sforzarsi di insegnarlo ai ragazzi. Con le parole e con l’esempio: se un adolescente mette online il video di una compagna svestita, non dovrà passarla liscia e, se ancora non lo sa, deve imparare che non si può fare. Per il suo stesso bene. Non servono punizioni esemplari, anzi: le pene umilianti, ormai e noto e certificato, sono controproducenti. Serve un lavoro di recupero che sappia diventare valorizzazione, una spinta verso il meglio.
E la punizione andrebbe condivisa dagli adulti – siano essi i genitori o gli insegnanti – colpevoli di non aver esercitato il loro ruolo educativo.
Perché crescere figli maleducati è una colpa: lo dimostrano svariate sentenze della Corte di Cassazione che hanno condannato mamme e papà a pagare i danni causati a cose o persone dai comportamenti dei figli. Agli insegnanti che non hanno saputo insegnare non serve infliggere alcunché: la loro pena la scontano tutti i giorni, entrando in classe e incontrando gli sguardi vuoti dei ragazzi, che non li vedono nemmeno.
PS. Alla scuola serve anche qualcosa che non dipende solo dai suoi protagonisti: una politica pienamente consapevole del suo valore e un’informazione che sappia vederne e raccontarne anche i meriti e le buone pratiche. Noi ci proviamo.