mercoledì 3 novembre 2010
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Come in una drammatica e crudele roulette russa, il regime iraniano torna apparentemente a giocare cinicamente con la vita di Sakineh. La donna divenuta, suo malgrado, un simbolo di quanto la "giustizia" possa essere inumana e manipolabile. E, come sempre accade per i simboli, la sua vicenda personale – il suo calvario di donna condannata, dopo un processo dubbio, a una pena barbara e ripugnante come la lapidazione – si trasforma in giochi di potere e in prove di forza internazionali. O anche in furbizie meschine, come chi cerca di concentrare l’attenzione su di sé, più che su Sakineh, quasi vi fosse una qualche «esclusiva» nella battaglia contro la pena di morte (magari vantata da chi non riconosce affatto la sacralità della vita umana dal primo inizio alla fine naturale).Ma prima di riflettere sul suo essere simbolo, sia concesso di fermarsi, e di pregare, per una persona vera, che oggi potrebbe venire barbaramente uccisa. E di raccogliersi attorno a una famiglia che da mesi, nonostante ingiurie e minacce, cerca in ogni modo di salvare la propria congiunta.La vicenda di Sakineh è, però, diventata ben più di un caso è personale e archiviabile senza contraccolpi: la sua eventuale esecuzione – le voci filtrate dall’Iran, sono insistenti, ma non confermate – investe i rapporti fra il regime di Teheran e la comunità internazionale, così come testimonia di guerre di potere che scuotono il grande Paese asiatico. A un primo livello, uccidere Sakineh significherebbe rilanciare a sfida al resto del mondo, dimostrando che il regime non si fa condizionare da appelli, richieste e ammonimenti internazionali. E se non si fa condizionare per una vicenda giudiziaria che coinvolge una singola donna, a cui sarebbe così facile commutare la pena, tanto meno Teheran si piegherà su questioni strategiche come il nucleare e l’appoggio agli estremismi mediorientali. È questo il messaggio neppure tanto celato: rifiutare un gesto di clemenza, portare a termine un’esecuzione feroce che costerebbe un prezzo d’immagine fortissimo per la Repubblica islamica, solo per dimostrare che l’Iran non cede. Una follia politica; e tuttavia proprio quanto vanno cercando gli elementi più dogmatici e oltranzisti. Per essi, lo scontro frontale, e i ponti bruciati verso l’Occidente sono le armi migliori per dominare una società che – lo hanno dimostrato le proteste popolari dello scorso anno – li considera come oppressori e non come rappresentanti del proprio popolo.Ma vi è anche un ulteriore livello di riflessione: la frammentata e contrapposta élite di potere è disposta a usare ogni arma per squalificare l’avversario. E quindi, secondo alcune interpretazioni, Sakineh potrebbe essere l’utile pedina per indebolire il ceto clericale dei conservatori tradizionali, i quali hanno favorito l’ascesa degli ultraradicali di Ahmadinejad per combattere i riformisti. E che si accorgono ora di avere un avversario ben più potente e astuto. I tradizionalisti non potranno mai sconfessare le pene corporali della sharia, la legge religiosa islamica che essi hanno reintrodotto nel Paese. La loro applicazione ottusa e dogmatica porta alla lapidazione. Evocarla ripetutamente serve a dimostrarne la mancanza di comprensione degli scenari politici internazionali e a rafforzare la distanza fra essi e la società iraniana. Per un populista come Ahmadinejad un’occasione da sfruttare cinicamente per dimostrare la propria "modernità" rispetto ai tradizionalisti, come già più volte avvenuto in passato. L’Occidente e l’Italia si sono nuovamente attivati per salvare Sakineh. Quale che sia la ragione di queste voci – e al di là di ogni dietrologia – la speranza è che questa donna, da simbolo torni definitivamente ad essere solo una persona. Una persona che ha il diritto di vivere.
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