mercoledì 12 settembre 2012
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​Il confronto di ieri tra governo e sindacati – dopo l’analogo vertice tenuto la scorsa settimana con gli imprenditori – ha già conseguito due risultati importanti, tra loro correlati. Il primo è quello di aver segnato una discontinuità nell’atteggiamento dello stesso esecutivo, finora tentato dall’illusione di potere, o addirittura di dovere, “far da solo”, dando sostanzialmente per scontato che le parti sociali fossero un freno e non una sponda necessaria nell’opera di risanamento del Paese. Il secondo merito è quello di aver riportato in primo piano il tema della produttività, e quindi dell’organizzazione dei rapporti tra lavoro e impresa, come chiave principale per riaccendere i motori della ripresa economica.Tra le diverse e numerose cause della crisi nella quale ci troviamo immersi, infatti, non può sfuggire quel lento declino del nostro apparato produttivo che già si segnalava come dato emergente ben prima che la finanza impazzisse. E che aveva, appunto, come fattore determinante un forte deficit di produttività. Nell’ultimo ventennio, in poche parole, da noi sono cresciuti i costi – e il costo del lavoro in particolare – mentre la produzione stentava. E, paradossalmente ma non troppo, cresceva il numero di occupati con contratti più o meno temporanei, più o meno precari. Poche cifre bastano a comprendere l’ampliarsi di uno spread nell’economia reale assai più difficile da far calare di quello sui titoli di Stato. Se si fa 100 la produttività del lavoro dei principali Paesi europei nel 1999, infatti, ci si accorge di come nel 2008, alla vigilia della crisi, quando la nostra occupazione toccava i massimi, il valore per l’Italia era sceso a 95, dopo aver toccato un massimo di 108 nel 2007. Partendo dalla stessa base, il dato in Francia segnava 122 nel 2008 dopo aver toccato un massimo di 132; mentre in Germania si registrava un 123 dopo un massimo a quota 135. Scenario analogo, in maniera speculare, se si esaminano i dati sul Clup, il Costo del lavoro per unità di prodotto. Fatto sempre 100 il valore di tutti i Paesi nel 2000, alla fine di quest’anno arriveremo a 135 in Italia contro il 112 della Germania e il 120 perfino di Grecia e Portogallo. Tradotto, significa che il nostro Paese sconta uno scarto negativo di competitività notevole, che si è progressivamente aggravato nel corso degli ultimi 20 anni.Fondamentale allora ripartire da qui, attivando la leva della contrattazione per risollevare una produzione a costi competitivi e trainare il nostro apparato industriale fuori dalle secche. Non si tratta di abbassare semplicemente il costo del lavoro agendo sui salari netti, questi sì già più bassi di quelli dei nostri competitori europei. Al contrario, servono disponibilità e fantasia nel costruire accordi aziendali “su misura”, flessibili e funzionali, capaci di fornire alle aziende fattori di risparmio, di saturazione degli impianti, di gestione elastica degli orari, di innovazione nei processi produttivi; e al tempo stesso premi e incentivi salariali che arricchiscano anche operai e impiegati. Fino a scambi più forti e impegnativi fatti di compartecipazione ai risultati aziendali, agli utili e, dove possibile, al capitale stesso dell’impresa. Non è un caso che le aziende oggi meglio posizionate sui mercati siano le stesse che hanno i contratti di secondo livello più innovativi sul piano delle prestazioni e più “ricchi” di benefit per i lavoratori.Ieri, i sindacati hanno mostrato interesse e disponibilità a riprendere il filo delle intuizioni su questi temi già contenute nell’accordo sulla contrattazione del giugno 2011. E la stessa leader della Cgil – che quell’intesa fatica a “far digerire” all’ala più oltranzista della sua confederazione – non si è affatto tirata indietro, pur incalzando l’esecutivo ad assumere provvedimenti per la crescita. L’opportunità va colta al volo, anche con un’altrettanto onesta e decisa disponibilità degli imprenditori a investire (per capirci, senza poi tirarsi indietro come accaduto per il progetto Fabbrica Italia della Fiat).Lo stesso governo, però, non può pensare che il compito tocchi esclusivamente alle parti sociali. Il ripristino della tassazione di favore sui premi di produttività è solo il primo passo che dovrebbe compiere. Poi occorrono incentivi mirati all’innovazione, un taglio del cuneo fiscale che pesa fortemente sul costo del lavoro e sgravi alle famiglie per fermare il crollo dei consumi interni. Cominciando così a lenire «gli effetti negativi della cura di risanamento» riconosciuti ieri dallo stesso premier.
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