«Non vogliamo la guerra, vogliamo la pace» ha detto il vicepresidente statunitense J.D. Vance meno di 24 ore dopo che Donald Trump ordinasse ai suoi bombardieri B-2 di sganciare la potentissima Gbu-57 sugli impianti iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan. Un attacco con cui gli Usa entrano al fianco di Israele nel conflitto con Teheran. Più dei fatti, però, nell’era politica della post-verità – termine sdoganato dallo stesso Trump – contano le narrazioni. Di fronte alla realtà di un tycoon che trascina il Paese verso una nuova “contesa bellica eterna” come quelle dei tanto criticati predecessori, Vance precisa: «Non siamo in guerra contro l’Iran ma contro il programma nucleare». L’ultima di una serie di acrobazie semantiche che si sono susseguite nelle ultime ore da una parte all’altra dell’Atlantico.
A dare il via è stato lo stesso Trump che ha annunciato il raid con un post su Truth. Sempre suo social personale si è congratulato con se stesso per lo «spettacolare successo militare ottenuto». Benjamin Netanyahu non è stato da meno. In conferenza stampa ha spiegato che «non intente prolungare le operazioni in Iran più del necessario ma nemmeno finirle anticipatamente». Il punto è cosa si intenda per “necessario”. Il premier israeliano non perde occasione nel legittimare ogni azione compiuta negli ultimi ventuno mesi come frutto della “necessità”. Non è un segreto che per il politico conservatore “stare con la spada sempre sguainata” debba essere il modus vivendi di Israele in un Medio Oriente popolato da “nemici irriducibili”. Una condizione ontologica – indipendente dunque dalle contingenze - dei Paesi arabi nella sua visione, mutuata dal padre, lo storico Benzion Netanyahu. E ripetuta qualche ora fa, ancora galvanizzato per l’aiuto americano: «Prima viene la forza, poi viene la pace». Un assioma che – ha spiegato – condividerebbe con Trump, determinato a costruire la pace attraverso la forza. «E stavolta di forza ne ha impiegata tanta» ha aggiunto compiaciuto. Peccato che il passato recente e remoto dimostrino il contrario. La pace portata dai missili si rivela effimera e genera le condizioni di nuovi e più feroci conflitti.
La tragica lezione della Seconda guerra mondiale – nata proprio sugli sconquassi generata dalla Prima e dalla pace-clava di Versailles – aveva fatto prendere coscienza al mondo dell’urgenza di limitare mutuamente la forza per evitare uno stato bellico permanente. La comunità internazionale si è riuscito per decenni solo in minima parte ma almeno l’orizzonte era chiaro. Era appunto. Nella neolingua orwelliana della post-verità è la guerra a portare la pace. “La guerra è pace”, diceva il Grande fratello. Nel frattempo, le bombe continuano a cadere.