domenica 3 luglio 2016
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«Questione morale», «mani pure» e l’impegno da cristiani La 'questione morale' si ripropone ciclicamente e inesorabilmente nel nostro Paese, in relazione a una serie di interventi della magistratura che continuano a chiamare in causa trasversalmente tutti i partiti, vecchi e nuovi. Ci si interroga, a ogni livello, su come affrontare il problema della moralizzazione della vita pubblica; ma il più delle volte, partendo dalla politica. Qui si vorrebbe invece riprendere il tema – per ceti aspetti logoro e frusto – partendo dalla società civile, sulla base di una domanda fondamentale: è possibile 'moralizzare' la politica o è inevitabile abbandonarla al suo (malinconico) destino? Per cercare di dare una risposta a questo interrogativo è proprio necessario partire dal basso, e cioè dalla società civile. E qui si deve constatare che relativamente pochi sono coloro che, in essa, ritengono doveroso impegnarsi (non necessariamente per tutta la vita) per il 'bene comune' e non soltanto per il proprio 'particolare'. Si ritiene, cioè, che siano sempre 'altri' a doversi occupare della casa comune, tanto a livello nazionale quanto sul piano locale. Deriva da questo atteggiamento un effetto perverso: molti sono i 'candidati' alle cariche – lo dimostra la vera elefantiasi delle liste in occasione delle elezioni amministrative. – e pochi i 'candidati' a un impegno che non includa cariche, onori, prebende. Per gran parte degli italiani un impegno politico disinteressato appare addirittura 'impensabile': al punto che chi si pone in questa prospettiva è spesso accusato di ipocrisia (prima o poi vi deve essere, di qui o di là, un proprio 'tornaconto'…). Che questa visione sostanzialmente deformata della politica contagi anche i credenti non pare dubbio. Di qui una grande generosità negli ambiti del volontariato e dell’impegno per gli altri; di lì il persistente rifiuto della politica, anche quel modesto livello amministrativo in cui più evidente è la 'vicinanza' della (buona) politica alle concrete esigenze di un gruppo umano, alla 'vita buona' di una comunità. Vi è stata una lunga stagione in cui i credenti hanno ritenuto invece doveroso impegnarsi nella città e hanno espresso una classe dirigente di alto livello (per la quale non mancano, oggi i riconoscimenti postumi degli eredi di coloro che a suo tempo attaccarono e spesso sbeffeggiarono quanti, da cristiani, erano 'discesi in campo'…). Oggi, invece, quegli uomini e quelle donne non sembrano avere né eredi né continuatori. Non più, come un tempo, diversamente dagli altri, ma ormai come gli altri, omologati alla società degli individualismi in cui ciò che conta è solo la realizzazione personale e non la preoccupazione del bene comune. Quali le cause di questo sempre più manifesto distacco dei credenti dalla politica, e dalla buona politica? Parte della colpa è forse attribuibile al grigiore di gran parte della politica di oggi, unita all’indecente spettacolo da molti offerto; ma. Alla fine, le radici del male sono più profonde, e a mio parere sono propriamente teologiche. Si è perso lo slancio delle grandi costituzioni conciliari, soprattutto della Gaudium et Spes, con il suo pressante invito rivolto ai credenti perché facciano proprio le «gioie e le speranze» di una umanità ancora alla ricerca di se stessa. Le «gioie» e le «speranze» che molti, troppi, credenti coltivano riguardano il posto di lavoro e la quiete familiare, la cerchia dei parenti e amici e quella della parrocchia. Oltre non si va: hic sunt leones, e dunque dalla politica occorre guardarsi per avere le «mani pulite». Ma una non dimenticata espressione di Emmanuel Mounier, un grande credente – mai politico di professione, ma sempre appassionato della Città degli uomini – che metteva in guardia da coloro che «hanno le mani pure perché non hanno mani», visto che non si pongono mai al servizio della città. Ebbene, la città italiana – per certi aspetti la Chiesa di base italiana – è davvero ormai composta solo da credenti «dalle mani pure»?
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