mercoledì 14 settembre 2011
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Caro direttore,
le scrivo dopo aver letto e riflettuto sulla pagina che durante il Meeting di Rimini Avvenire ha dedicato a «l’uomo che riscattò la dignità dei bimbi down». Sono genitore di una persona down (perché non restano sempre "bimbi", crescono e diventano adolescenti e adulti come tutti gli uomini del mondo) e professionista sanitario che da 35 anni si occupa di riabilitazione. Senza nulla togliere alla scoperta del genetista Lejeune che, da scienziato, si è chiesto perché e ha trovato la risposta, volevo dirle che le parole della figlia del dottore non rendono giustizia a tutti quei genitori e familiari che fin dal concepimento del loro figlio devono ancora lottare contro pregiudizi, medicalizzazione, tagli ai servizi sociali e sanitari, alla scuola, ai fondi regionali per la disabilità; perché non basta riconoscerlo alla nascita come persona, bisogna farlo tutti i giorni, tutti i minuti della giornata, tutti gli anni della sua vita.
 
Anche le istituzioni, che costituzionalmente dovrebbero aiutarci in questo, considerano i nostri figli un problema economico, un invalido oggetto di servizi o di assistenzialismo e non persone con diritti e doveri. Spesso, nella migliore delle situazioni, qualche specialista ci ha detto che nostra figlia è una risorsa per la comunità, e per la nostra famiglia e la nostra comunità lo è stata e lo è; ma è la famiglia che deve attivarsi (noi per fortuna siamo una famiglia numerosa) non solo dedicandosi incessantemente e per sempre all’educazione del figlio down ma anche con un’attenzione continua al contesto di vita (prendendosi cura della comunità perché la comunità si prenda cura di lui). Questo lavoro non tutte le famiglie possono farlo; non ce la fanno o ce la fanno per un periodo di tempo. Dovrebbero essere anche le istituzioni sanitarie e sociali a farlo, non con le belle parole ma offrendo a queste persone opportunità concrete di educazione, di riabilitazione, di lavoro, di attività per il tempo libero nei luoghi della comunità.
 
Faccio un piccolo esempio: mia figlia in prima media (2006) sfogliava i libri di scienze guardando la tv; a un certo punto si è fermata su una pagina (casualmente?); si parlava delle malattie da prevenire con l’aborto terapeutico e una di queste «gravissime malattie che provoca insufficienza mentale grave… » e tante altre malformazioni che portano a morte anche precoce, era la Trisomia 21. Ho scritto alla casa editrice facendo presente che il testo sarebbe andato in mano non solo a persone down per fortuna oggi inserite a scuola ma anche a fratelli e amici loro; ho chiesto le fonti, che, mi hanno risposto, erano di testi di medicina del 1954… La casa editrice si è scusata, ha modificato il testo chiedendo all’Aipd nazionale la forma più corretta e rispettosa della verità della persona e ha cambiato tutti i testi della scuola (solo la nostra, però).
 
Questo è solo un esempio per raccontare la fatica che non può mai venire meno di essere attenti in questo compito di far diventare persone i nostri figli. Ho cercato notizie dello scienziato Lejeune e ho letto della sua fondazione che supporta i genitori con interventi educativi, sociali e riabilitativi: credo che ciò serva ad aiutare queste persone e le loro famiglie. Senza la famiglia non potrebbero crescere, non sarebbero persone. Concludo dicendo che non è la disabilità che fa paura alle madri o alle famiglie delle persone disabili ma il contesto della società moderna, inaccessibile per chi non ha una marcia in più, un contesto sociale in cui diventa svantaggiato anche chi è semplicemente lento!
 
Mi sono permessa di scrivervi perché abbiamo un legame con il vostro giornale, dato che tanti anni fa abbiamo risposto a un vostro appello per trovare una famiglia a dei bambini disabili. Se nostra figlia fosse rimasta in istituto cosa ne sarebbe stato di lei? E ora che ha più di 18 anni e facciamo tanta fatica a seguirla come si dovrebbe (lavoriamo tutti e due, i figli ormai grandi escono di casa, non possiamo andare in pensione, i servizi sociali e sanitari sono tagliati dalle manovre, gli stipendi sono ridotti, l’età non ci aiuta…..) riusciremo ancora a darle delle opportunità?
Giuseppina Bottacin, mamma, operatore sanitario,  provincia di Venezia
Grazie, gentile signora Bottacin, per aver condiviso con noi questi pensieri e un po’ della sua esperienza di madre e di operatore sanitario. Purtroppo giudizi sommari, distrazioni e disattenzioni ingiustificabili segnano pesantemente l’atteggiamento prevalente nel nostro Paese nei confronti della persone down. Un “rifiuto” che lei con delicatezza amarissima evoca, raccontandoci del libro di scienze di sua figlia. «Prevenire» con un «aborto terapeutico» la Trisomia 21 non significa “curare” ma “eliminare” la persona down in procinto di nascere. È duro anche solo da dire, ma soprattutto è terribile constatare che ormai si tratta di una realtà tragicamente diffusa. Sono ammirato dalla sua serena e affettuosa determinazione, cara amica, e mi ritrovo naturalmente coinvolto dalle parole – “persona”, “comunità” – che usa per descrivere sia la bellezza e la fatica del suo impegno genitoriale e professionale sia coloro ai quali si rivolge. Mi permetta, la prego, un abbraccio.
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