domenica 3 ottobre 2021
Un processo di apprendistato individuale e collettivo per definire l’identità del Continente
Dobbiamo imparare a distinguere tra cancellazioni delle nostre frontiere, che generano riflessi populisti, e passaggi di frontiera, che aprono all’incontro

Dobbiamo imparare a distinguere tra cancellazioni delle nostre frontiere, che generano riflessi populisti, e passaggi di frontiera, che aprono all’incontro - Ansa

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Estratto del testo del professor Christoph Theobald a chiusura del convegno della rivista Il Regno e della comunità di Camaldoli, Le metamorfosi della democrazia. Percorsi di cultura politica. Anno 2 (Camaldoli, 30 settembre - 3 ottobre 2021)


L’attuale pandemia, con le sue conseguenze catastrofiche su un piano sociale e psicologico, insieme all’inquietante minaccia ecologica che pesa sulle nostre società, suscitano un nuovo interesse per la solidarietà europea, malgrado la presenza di egoismi nazionali persistenti. La popolazione sembra un po’ più cosciente di trovarsi su una stessa barca. Al tempo stesso, le relazioni intercontinentali – in particolare con la Cina e con la sua cultura politica così estranea alla nostra – mettono l’Europa di fronte alla questione urgente di sapere se, al suo interno e nel gioco delle sue relazioni con gli altri continenti, essa vuole comprendersi unicamente come potenza economica (con tutto ciò che questo implica) o se le sembra importante e fecondo attivare le molteplici potenzialità culturali e spirituali nascoste nella propria storia. In effetti, è la questione della sua identità che le viene proposta da ogni parte: «Europa, che cosa dici di te stessa? ».

Ora, questa ricerca dell’identità è intimamente legata alla nostra maniera di vivere rispetto alle nostre frontiere. In un mondo aperto, in cui il processo di globalizzazione tecnologica e digitale, economica e finanziaria rischiano di annullare le nostre frontiere e di creare il sentimento di non essere più a casa nostra, le questioni d’identità si trovano come esasperate. Dobbiamo allora imparare a fare la distinzione tra cancellazioni sciagurate delle nostre frontiere, che provocano di ritorno dei riflessi difensivi e populisti, e passaggi di frontiera che trasformano queste ultime in luoghi d’incontro, di arricchimento e di fecondazione reciproci, senza affatto negarle, ma rendendole porose e formatrici d’identità. E questo non soltanto nella sfera privata dei nostri incontri e delle nostre relazioni familiari e amicali, ma anche in tutti gli ambiti della nostra coesistenza sociale, nella cultura, nella religione e nella politica; insomma, ovunque esistono realmente delle frontiere.

L’alternativa che qui si profila ci colloca in un laborioso processo di apprendistato individuale e collettivo che prende oggi dimensioni nuove. La questione che vorrei porre è dunque di sapere come i cristiani e le loro Chiese possono partecipare a questo processo di apprendistato. Non è facile rispondere, perché lo stesso cristianesimo europeo non è più molto sicuro della propria identità e cerca, in gruppi non trascu- rabili di fedeli, di fissare tale identità in una forma atemporale e di difenderla da tutto ciò che non è cristiano, ponendosi piuttosto dal lato dei cittadini che rispondono alla globalizzazione tramite riflessi identitari di chiusura sovranista e di delimitazione. Ora, partecipare al processo di apprendistato e di discernimento che ho appena evocato, esige che i cristiani e le loro Chiese non abbiano paura di confessare la loro mancanza di sicurezza e osino chiedersi in che cosa consiste loro fede: che essi s’impegnino dunque in un processo critico di autoanalisi a proposito del proprio universo di fede e soprattutto che si lascino invitare a farlo da coloro che non condividono le loro convinzioni. Questo apprendistato 'transfrontaliero' corrisponderebbe al loro modo di vita di 'apprendisti' o di 'discepoli' di Gesù e sarebbe al tempo stesso la condizione per una partecipazione fruttuosa ai processi di apprendistato paneuropei.

Tale doppio apprendistato potrebbe cominciare da un ritorno comune alle 'radici' culturali e religiose dell’identità europea, spesso intrapreso in passato. Per quanto possa essere importante questo lavoro di memoria, esso non sembra poter far fronte al nostro persistente disagio europeo. Malgrado numerose tendenze contrarie, la simbiosi culturale tra il cristianesimo e l’Europa ha lasciato tracce importanti nel nostro sistema di valori e nelle nostre istituzioni. Il fatto di insistere su di esse nei dibattiti riguardanti il futuro del nostro continente è sospettato, da parte dei non cri- stiani e dei non più cattolici - oggi largamente maggioritari in Europa occidentale -, di volersi 'annettere' coloro che la pensano diversamente e di immunizzarsi contro metamorfosi sociali e riforme ecclesiali, suscitando irritazioni di vario genere.

Nulla dunque è più necessario nella crisi attuale di una speranza comune e di una fiducia reciproca: tanto il progetto europeo e la sua realizzazione politica, quanto la recezione della fede cristiana in Europa nella sua forma ecclesiale, dipendono da una fiducia rinnovata da parte della popolazione. Dopo una simbiosi più che millenaria tra la cultura europea e la tradizione cristiana, quest’ultima non può più contare su di un tale capitale di fiducia. Non è forse la ragione per cui dobbiamo, come cattolici, trovare una nuova relazione con il nostro continente? Certamente, in quanto cittadini che amano abitare questa parte del mondo, ma che come cristiani non possono rivendicarvi alcun diritto specifico. Avanzo dunque l’ipotesi che la sollecitazione all’ospitalità per la nostra fede in Europa, nella forma già praticata dai primi cristiani, è l’espressione certo modesta ma la più adatta alla nostra situazione di crisi, e rappresenta al tempo stesso un contributo costruttivo alla ricerca d’identità dell’Europa: di un’Europa dalle tradizioni molteplici, che deve poter trovare il suo profilo pro- prio diventando ospitale, internamente e di fronte all’orizzonte mondiale. […]

Per i cristiani e le loro Chiese in Europa, allora, attraversare le frontiere esistenti e sollecitare l’ospitalità significa: (1) sviluppare un ardente interesse per la vita quotidiana di ogni essere umano e per la sua fede elementare nella vita; (2) prendere sul serio la sua competenza interpretativa e le grandi tradizioni di senso dell’umano, così come accompagnare il processo nel quale le comunità religiose e gli umanesimi devono imparare a gestire il pluralismo europeo e operare per il legame a-religioso tra tutti i concittadini; e infine (3) sovvertire la paura e la fascinazione che, a partire dalla morte, minacciano di sacralizzare tutte le nostre frontiere, e trovano nella vittoria di Gesù il Messia sulla morte la forza di vedere come eredità la nostra Terra, attraverso gli occhi di coloro che non sono ancora nati, e noi come i loro ospiti.


Se malgrado le molte resistenze i cristiani e le loro Chiese adotteranno lo stile messianico di Gesù vedranno ciò che
«molti profeti e re hanno voluto vedere»: che effettivamente «la messe è abbondante» Essere solo potenza economica o nutrirsi delle molteplici potenzialità culturali e spirituali della propria storia?

Certo, questo impegno così specifico negli ambiti cruciali del nostro continente resta esposto a violenze più o meno sottili; ma tale rischio è uno dei suoi elementi costitutivi e segna la sua fragilità. Se malgrado tutte queste resistenze, anche interne, i cristiani e le loro Chiese adottano lo stile messianico di Gesù, essi possono fare l’esperienza gratuita e gratificante che la loro sollecitazione transfrontaliera dell’ospitalità sulla base della loro fede e della loro partecipazione al processo di apprendistato europeo li arricchiscono in maniera inattesa, secondo un’inversione di sapore evangelico: poiché essi vedranno ciò che 'molti profeti e re hanno voluto vedere' (Lc 10,24), che effettivamente 'la messe è abbondante' (Lc 10,2).

SJ Professore di teologia sistematica Centre Sèvres - Parigi (traduzione dal francese di Emanuele Bordello)


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