martedì 9 marzo 2010
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Luigi Sturzo e Aldo Moro. E poi, ancora: don Pino Puglisi, don Giuseppe Diana e Rosario Livatino. Ecco i cinque nomi di cittadini nati a Sud del Garigliano che abbiamo ritrovato nel documento dell’Episcopato italiano dal titolo "Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno". I primi due, esponenti di spicco del cattolicesimo politico, sono stati evocati all’interno della riflessione sul federalismo fiscale (n.8), per la loro «sempre valida visione regionalista», che spinge a considerare il federalismo «come una modalità atta a realizzare una più moderna organizzazione e ripartizione dei poteri e delle risorse». Gli altri tre uomini del Sud, due sacerdoti e un magistrato, vengono chiamati in causa poche pagine più avanti (n.9), laddove i vescovi si interrogano su «una piaga profonda: la criminalità organizzata». Senza tralasciare un più ampio riferimento ai «numerosi testimoni immolatisi a causa della giustizia: magistrati, forze dell’ordine, politici, sindacalisti, imprenditori e giornalisti, uomini e donne di ogni categoria». Ma solo a queste tre persone viene riconosciuta la «luminosa testimonianza». E su questo crediamo che non si possa assolutamente discutere, anche perché lo stesso don Pino Puglisi viene ulteriormente ricordato nella cornice della «testimonianza dei santi» (n.18). «Il suo impegno sociale - viene rimarcato - non può essere separato dalla fede cristiana che lo animò e lo sostenne, non solo in mezzo a tante difficoltà, ma persino di fronte alla morte violenta presentita e accettata».Ecco, sembra quasi che i vescovi italiani abbiano voluto essere prudenti, abbiano scelto il registro della sobrietà, abbiano preferito non elargire patenti di esemplarità. Forse hanno preso atto della povertà dei nostri tempi, in cui latitano le virtù civili e la santità spesso è percepita come un ideale difficile persino da proclamare. Ma le genti del Sud restano fondamentalmente sane, forti proprio di quel «radicamento popolare del senso religioso e cristiano della vita» che i vescovi hanno voluto sottolineare. La missione che i vescovi affidano ai meridionali è di alto profilo: «Non si tratta di ipotizzare scenari politici diversi, quanto, piuttosto, di sostituire alla logica del potere e del benessere la pratica della condivisione radicata nella sobrietà e nella solidarietà» (n.19). Ma per raggiungere un obiettivo così ambizioso, non solo occorre respingere «ogni tentazione di torpore e di inerzia» così come «ogni forma di rassegnazione e fatalismo», ma bisogna accettare la sfida educativa «come la più decisiva per lo sviluppo integrale del Sud». A questo riguardo le parole dei vescovi appaiono persino sorprendenti: «Il Mezzogiorno può divenire un laboratorio in cui esercitare un modo di pensare diverso rispetto ai modelli che i processi di modernizzazione spesso hanno prodotto, cioè la capacità di guardare al versante invisibile della realtà e di restare ancorati al risvolto radicale di ciò che conosciamo e facciamo: al gratuito e persino al grazioso, e non solo all’utile e a ciò che conviene; al bello e persino al meraviglioso, e non solo al gusto e a ciò che piace; alla giustizia e persino alla santità, e non solo alla convenienza a all’opportunità» (n.17). C’è qualcosa di poetico e di radicale in queste parole. Ma anche qualcosa in più di una semplice promessa. È un impegno a costruire una nuova proposta educativa in grado di fare innamorare i giovani meridionali del vero, del buono e del bello.
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