lunedì 31 marzo 2014
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Caro direttore,
sono un medico di medicina generale, Conosco molto bene cosa comporta essere un pubblico ufficiale. Ritengo che la distinzione giuridica operata dalla Cei tra “pubblico ufficiale” e “comune cittadino” sia non applicabile al mandato pastorale di un vescovo, qualora venga a conoscenza di un reato così schifoso e abietto come un atto di pedofilia. In questo caso un vescovo deve sentire il dovere di denunciare a prescindere dal suo status giuridico. Se non lo fa, è meglio che smetta quei panni. Un successore degli apostoli non sarà un pubblico ufficiale, ma non può nemmeno dimostrarsi un pubblico fariseo… I bambini , i minori, le persone in situazione di inferiorità psicologica sono indifesi e, quando subiscono abusi, non sanno cosa è un pubblico ufficiale, ma sanno molto bene cosa è il dolore, un dolore immenso fino alla morte... Mascherarsi dietro un paravento giuridico è assolutamente vile, meschino e osceno: «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!» (Matteo 18, 6–7). Non entrerò più in una chiesa, direttore, fino a quando non ci sarà un revisione radicale di questo atteggiamento vile, e le garantisco che sono un cattolico convinto. Dio protegga Papa Francesco che sa riconoscere molto bene chi è un sepolcro imbiancato.
Giovanni Manera, Villar San Costanzo (Cn)
Continui pure a entrare con convinzione e serenità in chiesa, caro dottor Manera. Posso, infatti, dirle che è stato informato male e, dunque, mi pare evidente che venerdì sera, quando mi ha inviato la sua mail, avesse ricavato la notizia che tanto l’ha scossa da fonti (in tutto o in parte) non limpide e forse anche un po’ avvelenate o, almeno, diciamo così, con addetti al “controllo di qualità” piuttosto superficiali o prevenuti. Cioè, di fatto, ostili – prima ancora che alla Chiesa cattolica – alla pura e semplice verità dei fatti. La Cei ha dato indicazioni precise ai vescovi italiani a proposito di eventuali casi di pedofilia: essi hanno il «dovere morale di denunciare» oltre a quello di «collaborare con le autorità civili» e questo anche se, secondo le leggi della Repubblica essi non sono “pubblici ufficiali” e dunque come ogni altro cittadino non sono formalmente obbligati a rivolgersi alle autorità giudiziarie o di polizia. Venerdì mattina, i giornalisti avevano interrogato sulla questione il vescovo Galantino, segretario generale della Cei. E lui aveva spiegato con chiarezza che un Pastore cattolico «ha il dovere morale di favorire la giustizia che persegue i reati: non è il difensore d’ufficio del sacerdote eventualmente accusato. È un padre per tutti, soprattutto è padre per chi avesse subìto abusi. E deve agire di conseguenza, cioè prendere decisioni concrete». Ieri, poi, il cardinale Bagnasco, di nuovo interpellato dai cronisti, è tornato a sottolineare questo punto, ricordando che per un cattolico «l’obbligo morale è ben più forte dell’obbligo giuridico, e impegna la Chiesa a fare tutto il possibile per le vittime». Questo significa collaborare con la giustizia italiana, e operare comunque per fermare il male, anche nel caso in cui le stesse vittime di abusi sessuali e i loro familiari chiedano di non essere «messi in piazza», cioè non vogliano una pubblica denuncia. Posso aggiungere, gentile amico, che quando la circostanza è certa anch’io sono come lei per la pubblica e civile denuncia di ogni violenza: da chiunque, contro chiunque e in qualunque modo sia stata compiuta. E tuttavia, anche solo per la mia esperienza di cronista, devo riconoscere che segnalazioni e racconti tristissimi e sconvolgenti (riguardanti i più diversi crimini contro la persona) sono non poche volte accompagnati dalla richiesta di un assoluto rispetto della privacy delle vittime. Magari una situazione simile è capitata anche a lei, che – se ho ben capito – è “medico di famiglia”. Da quel che mi scrive non ho dubbi sul fatto che lei, come me, pur pensando che il silenzio in certi frangenti sia un danno, pur spingendo per un’azione di giustizia rapida e per quanto possibile riparatrice, si preoccuperebbe di non fare nulla che possa ferire ulteriormente le persone offese. Beh, immagini quante volte più che a noi può accadere questo a un vescovo o a un sacerdote, a un religioso o a una religiosa, a un un educatore impegnato in parrocchia, negli oratori o in una delle tante realtà associative cristiane. E non perché in ambienti ecclesiali avvengano con più frequenza questi misfatti, anzi è vero il contrario. Ma perché accanto alle persone colpite, indifese, bisognose, mortificate, sole ci sono proprio loro. Ci sono anche con umana fatica e umani errori, ma soprattutto con la limpida forza del Vangelo. Ci sono sempre, perché sono chiamati a “esserci” non qualche volta, ma in ogni giorno della vita delle nostre comunità cristiane e civili. Certo, pure nella Chiesa ci sono stati e ci sono – del resto la società in cui viviamo ne è purtroppo letteralmente infettata – quelli che vengono definiti “mele marce”. Persone che se non si convertono, cioè se non comprendono il male fatto abusando di innocenti e del loro stato, se non capovolgono azioni e vita, rischiano ben di più di una condanna civile o canonica. Persone per le quali, come lei ricorda, risuona tagliente la parola che Gesù riserva ai corrotti che corrompono i piccoli: «Meglio che gli fosse appesa al collo una macina…». Ma soprattutto e – checché si dica e scriva – soprattutto nella Chiesa, ci sono tantissime persone giuste che sanno bene ciò che in certi casi va fatto. Qualunque cosa stabilisca la legge dello Stato, si ha il «dovere morale» di denunciare il male e di stare senza esitazioni al fianco delle piccole (e grandi) vittime di violenza. Questa è l’indicazione della Cei. Nel solco tracciato da Papa Benedetto XVI che ha reso di fortissima e solare evidenza la scelta più naturale e direi inevitabile per un cristiano. E lungo il cammino su cui, con il suo straordinario esempio, ci guida e ci accompagna Papa Francesco.
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