domenica 19 settembre 2010
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Caro direttore,ho letto con interesse l’editoriale del direttore della Caritas su Avvenire del 16 settembre. Sono pienamente d’accordo sullo scandalo della «vertiginosa ingiustizia della ricchezza che affama». Allora, perché non la smettiamo di dichiarare lotta alla "povertà" e cominciamo una lotta decisa alla ricchezza? (Forse ricorderai la campagna che quel grande profeta degli ultimi che fu dom Helder Camara, lanciò col messaggio: "Anno 2000, senza miseria!"). Così come condivido che la miseria non sia il prodotto della «fatalità» o della «pigrizia» o «ignoranza» dei popoli del Sud del mondo. In quaranta e più anni di visite nei villaggi di diversi Paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina dove la stragrande maggior parte delle persone soffre e muore per malattie, miseria e guerre,mi son reso conto che non si tratta di Paesi poveri, bensì come monsignor Nozza afferma, «impoveriti». Impoveriti dalla vertiginosa ingiustizia della ricchezza che affama. Ricordo tempo fa, di aver letto tra i "mattutini" di Avvenire una frase che non ho più dimenticato e che ho tenuto sempre presente nel modo di scrivere e di parlare: «In omnibus, prima quaestio fit de nomine»!. Se sistematicamente tutti, ma soprattutto la Chiesa e la sua stampa, fossimo fedeli a questo messaggio di usare i "nomi giusti": miseria  e non povertà, Paese o popolo impoverito, anziché povero, etc etc contribuiremmo a formare e consolidare una cultura che mi pare più vera e più giusta. Una cultura nuova che cambia il nostro modo di pensare e di agire. Oltre a queste due espressioni che andrebbero radicalmente cambiate, ne esistono altre. Ma per oggi basta. Bisogna però che ci abituiamo a non dimenticare che «in tutto, il primo problema, è intendersi sul nome».

Graziano Zoni

Come darti torto, caro Zoni? Come non condividere la passione che – con la concretezza di chi, attraverso Emmaus Italia, opera da una vita tra gli "ultimi" – ci metti nel denunciare lo scandalo dei cento e cento impoverimenti dei popoli del mondo? E come non condividere l’insegnamento e l’ammonimento di San Tommaso che ci ricordi? Diceva appunto l’Aquinate che nella ricerca filosofica e teologica – come nelle battaglie culturali, sociali e politiche – bisogna essere capaci di tutta la necessaria chiarezza dei termini. Quella, per intenderci, che rende preziosa e impegnativa e "scomoda" la Caritas in veritate di Papa Benedetto. Ripetiamolo, dunque, ancora una volta che la miseria non è un frutto del caso, ma di diseguaglianze e ingiustizie. Ripetiamo senza paura – facendo tesoro della drammatica lezione della grande crisi che ancora stringe il mondo – che ci sono purtroppo ricchezze accumulate con pratiche che gridano vendetta davanti all’umanità e al cospetto di Dio. Rammentiamocelo quando ribattezziamo «tigri» i Paesi e i popoli che provano a scrollarsi di dosso il destino del sottosviluppo e dello sfruttamento delle proprie risorse da parte di altri Stati e di entità multinazionali. E chiediamoci con serietà se non sia anche il nostro esempio di popoli evoluti e ricchi eppure selvaggi, quando si tratta di far affari, ad affilare i "denti" da fiera di chi pilota quei sistemi economici arrembanti e aggressivi, voraci degli ambienti naturali e della dignità di chi lavora e spera in un futuro migliore per sé e per la propria famiglia. Poi, però, ricordiamo pure che non tutta la «povertà» è una maledizione da combattere: esiste anche la povertà come scelta e come stile dell’esistenza, e io che vengo da Assisi sono cresciuto con la consapevolezza nient’affatto sdolcinata e consolatoria che la povertà, come la riconosceva e la viveva Francesco, può esserci «sorella». E teniamo bene a mente che non tutta la «ricchezza» è una prepotenza e un ladrocinio: ci sono esempi coinvolgenti e luminosi di un uso sociale delle risorse, delle proprietà, delle strutture (materiali e di persone) da parte di uomini di stato e d’impresa capaci di tenere la persona umana effettivamente al primo posto. Detto questo, caro Zoni, confermo di essere d’accordo con te sull’importanza di una rigorosa precisione di linguaggio nel definire i concetti e nell’individuare gli obiettivi della grande battaglia per umanizzare davvero le nostre società e i rapporti tra le diverse nazioni. Non ti nascondo, però, che al silenzio e all’inazione preferisco di gran lunga qualche approssimazione lessicale e concettuale. So infatti, quanto te, che lo scandalo più intollerabile di tutti sarebbe quello di usare le parole giuste e mostrare di aver capito che nessuno muore di fame o conduce una vita misera perché così sta scritto nelle stelle eppure continuare a non fare tutto ciò che è possibile e necessario per ristabilire un giusto equilibrio. Più passa il tempo e più vertici internazionali vedo celebrarsi, gentile e illustre amico, e più temo che lo scandalo sia proprio questo: sappiamo quello che c’è da sapere, abbiamo capito tutto, riusciamo persino a dire le cose che vanno dette, ma seguitiamo a non fare ciò che va fatto.
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