venerdì 18 marzo 2022
Il conflitto in Ucraina dimostra come i luoghi che custodiscono la cultura possano svolgere un ruolo attivo, sostenendo le comunità nello sforzo della speranza e della sopravvivenza I
La statua della Concordia nell’atrio del Museo archeologico di Napoli

La statua della Concordia nell’atrio del Museo archeologico di Napoli - Ansa

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l concitato rincorrersi delle notizie di morte, distruzione, strategie tattiche e diplomazia ha coinvolto, a tratti, anche il mondo della cultura. A vari livelli, l’arte, la musica, la ricerca universitaria hanno preso parte al dibattito sul conflitto che ha travolto l’Ucraina, posizionandosi da una parte e dall’altra delle barricate. Come era da aspettarsi, un ruolo nella formulazione di un punto di vista sullo scenario di guerra sta assumendo anche il fronte dei musei, non soltanto rispetto al tema – comunque cruciale – della tutela del patrimonio, ma in senso più ampio dei valori civili che qualsiasi conflitto calpesta. Che le opere d’arte assumano un particolare significato in uno scenario di guerra non è certo una novità: la storia dell’umanità è costellata di saccheggi, distruzioni e vandalismi perpetrati allo scopo di mortificare il nemico, di indebolirne l’identità, di oscurarne i simboli.

Ha destato sconcerto la distruzione del piccolo museo di Ivankiv, a una manciata di chilometri da Kiev, che ospitava le opere di Maria Prymachenko, un’artista del ‘900 considerata simbolo dell’identità culturale ucraina. A distanza di pochi giorni, abbiamo letto sulle cronache della decisione dell’Ermitage di ritirare proprie opere prestate all’estero per esposizioni ed eventi (scelta poi rientrata per quanto riguarda l’Italia), ma anche della condanna che artisti e intellettuali russi hanno voluto esprimere rispetto alle azioni militari in corso (spicca la decisione di Kirill Savchenkov e di Alexandra Sukhareva di ritirarsi dal padiglione russo della Biennale di Venezia, per testimoniare il proprio disagio di fronte a una guerra “insostenibile sia politicamente che emotivamente”).

Il Direttore Generale dell’Unesco Audrey Azulay ha dichiarato, poco dopo l’inizio delle ostilità, che la tutela del patrimonio culturale in Ucraina non riguarda soltanto la salvaguardia del passato, ma è un impegno ineludibile volto ad assicurare pace e coesione per il futuro. La stessa Icom, l’International Council of Museums, che sostiene il lavoro del Blue Shield International (una sorta di Croce Rossa dei beni culturali minacciati nei contesti di guerra), ha immediatamente condannato l’aggressione all’Ucraina richiamandosi agli obiettivi di pace e di dialogo che devono ispirare l’azione dei musei, intesi come “comunità globale”.

Ma ci sono altri aspetti che entrano gioco in queste prese di posi- zione. Non soltanto i grandi network e gli organismi internazionali hanno manifestato il loro dissenso: piccole realtà espositive, luoghi della cultura, musei nazionali e di piccoli centri hanno in vario modo sentito l’urgenza di prendere parte al dibattito pubblico, di schierarsi sul fronte della pace e della democrazia. In questi giorni, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli ha collocato simbolicamente nel proprio ingresso la statua della Concordia, mentre sulla scalinata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma campeggia un’installazione che invoca la Pace. Non è la prima volta, certo. Anzi: questa militanza dei musei, questo attivismo politico che sempre più li connota, rispondono a un bisogno delle comunità di trovare conferma e riconoscimento dei propri valori identitari, di speranza, di sopravvivenza, ma anche di potersi esprimere in uno spazio di dialogo che non sia inquinato dai meccanismi degli interessi prevalenti, dalle regie nascoste, dalle convenienze di parte.


Le battaglie democratiche combattute in tutto il mondo in nome dei diritti umani impongono ai musei di assumere una parte attiva nell’avanzamento della società civile Dai piccoli spazi espositivi alle grandi realtà nazionali, in tanti hanno sentito l’urgenza di prendere parte al dibattito pubblico

Prima di questa crisi, musei di tutto il mondo si sono schierati contro i conflitti in Medio Oriente ed in Africa, in difesa delle minoranze, a sostegno delle iniziative di dialogo nelle aree di crisi. Lo hanno fatto a fronte di fatti eclatanti, come la minaccia avanzata nel 2019 da Donald Trump di distruggere per rappresaglia monumenti del patrimonio iraniano, ma anche rispetto alle cosiddette crisi minori, quelle che investono le aree dimenticate e più povere del pianeta, o in merito a processi sotterranei ma costanti che funestano alcune parti del mondo, quelli cui più facilmente l’opinione pubblica – complice una certa politica e una certa informazione – tende ad abituarsi. Non sappiamo molto, e faccio soltanto alcuni esempi, di ciò che accade in Afghanistan dopo il ritorno dei talebani (cosa ne è delle donne, cui è stato negato il diritto di lavorare o di muoversi e di studiare liberamente?) o della situazione in Libia, dove incombe il rischio di una nuova guerra civile. Per non parlare dello Yemen, o della Nigeria, o del Myanmar.

Lo straordinario fenomeno che pone in carico ai musei un fondamentale ruolo di sensibilizzazione sulle questioni decisive dell’umanità e del pianeta (la pace, la democrazia, la sostenibilità, la vera equità sociale) è divenuto materia di un articolato dibattito che – dopo una fase di riflessione durata più di due anni – riaprirà il confronto sulla nuova definizione di museo in occasione della Conferenza Icom di Praga programmata per l’agosto del 2022. Una conferenza che ha scelto come motto “Il potere dei musei” e che nella descrizione dei propri obiettivi dichiara che “le battaglie democratiche combattute in tutto il mondo in nome dei diritti umani, impongono ai musei di assumere una parte attiva nell’avanzamento della società civile”. Questa militanza, che non esito a definire politica, ha preso corpo da anni in un movimento che sostiene la “non neutralità” del museo, ovvero il suo compito di orientamento etico e di riflessione sui temi globali del nostro tempo.

In un recente articolo comparso sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco (“L’Ucraina e le nostre debolezze”, 12 marzo) sottolinea la necessità dei Paesi occidentali di riflettere sull’evidenza di un indebolimento del proprio assetto, politico e istituzionale, che sembra aver smarrito coesione e forza attrattiva, ma soprattutto slancio, capacità di progettare il futuro. Lo stesso Panebianco ricorda il rischio gravissimo di un dilagare della cancel culture, di quella nebbia pesante che – attraverso complesse e a volte sofisticate dinamiche – tende a calare sulle tragedie e sulle verità del nostro passato (e dei passati, declinati al plurale).

Nella perdita di credibilità e autorevolezza di questo sistema, il fenomeno propulsivo dei musei, il ruolo attivo che essi esercitano nel discorso pubblico, risultando sorprendentemente attrattivi anche presso le nuove generazioni (studi recenti evidenziano quanto gli spazi social dei musei contribuiscano alla formulazione del pensiero politico dei giovani), appare come un terreno prezioso di elaborazione, uno spazio da proteggere e sostenere, un raro contesto di riflessione autentica di cui sentiamo più che mai il bisogno. Nel suo irrinunciabile compito di custodia della memoria, il museo è oggi il luogo forse più idoneo e promettente per favorire il pensiero critico dei cittadini, per incoraggiare partecipazione e valori di comprensione e di responsabilità nei confronti di un presente sempre più minaccioso e drammaticamente sconnesso dalle proprie radici.

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