giovedì 23 settembre 2010
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In un Paese normale non si lascerebbe il primo gruppo bancario privo del proprio amministratore delegato per un periodo che potrebbe superare i tre mesi, con il rischio concreto che questa vacatio apra ulteriormente le porte al capitale straniero. In un Paese normale si sarebbe provveduto a designare immediatamente un successore del timoniere congedato. E probabilmente si sarebbe provveduto a un’operazione così delicata come quella che coinvolge Unicredit – terza banca europea, diecimila filiali in ventidue Paesi del mondo – con modalità meno traumatiche di quelle che hanno visto l’uscita di scena (generosamente remunerata) di Alessandro Profumo.Ma le anomalie italiane non si esauriscono nello psicodramma di Piazza Cordusio. Pensiamo ai segnali che la defenestrazione dell’ad di Unicredit – per la quale non abbiamo motivo di biasimo né di compiacimento – fornisce ai mercati: quella di un’Italia che perde la bussola di una delle sue eccellenze e, segnatamente, dell’istituto di credito più internazionale d’Europa. Per di più il nostro è un Paese che, in questo delicatissimo frangente, non è in condizione di "schierare" né il presidente della Consob né il ministro per lo Sviluppo economico: segnali decisamente non confortanti per chi guarda con motivata apprensione alla proiezione d’immagine e alla tenuta del sistema economico e finanziario nazionale.Non bastasse, dietro il brusco congedo di Profumo s’individua facilmente una tesa partita politica. Non è infatti la quota in possesso della Libia o degli Emirati il motivo del licenziamento dell’amministratore delegato, bensì una guerra che qualcuno ha appropriatamente definito per banche, a indicare quel mosaico di fondazioni e di piccoli soci che compongono l’ossatura di Unicredit. Piccoli e grandi elettori che a Profumo hanno dedicato applausi e lodi e perdonato scivolate d’ala e gesti "politici" fino a quando il manager garantiva comunque cospicui dividendi, ma che hanno alzato sopracciglio e voce nel momento in cui le scelte – e magari anche gli errori, le omissioni, le impennate – dell’amministratore hanno eroso i loro particolari utili e bilanci.Il risultato è una guerra che ricorda da vicino le esasperate rivalità fra Signorie nell’Italia dei secoli di mezzo, e la concreta prospettiva che si finisca per spalancare – come accadde a Ludovico il Moro con Carlo VIII – le porte a un sovrano straniero. Proprio la sgargiante ostilità reciproca delle tante tessere del mosaico Unicredit, finisce per far risaltare la tutta politica entrata in scena di coloro che stanno dietro ai piccoli e grandi feudi "federati" nella prima banca italiana. Ci sono – o s’intravedono – tutti o quasi, dal Pdl al Pd. E in particolare c’è la Lega Nord. Che non lascia i suoi tradizionali stendardi, ma alza più di tutte la bandiera dell’«italianità» dell’istituto, in principio sventolando il pericolo della crescita delle quote libiche e da ultimo – quando a Profumo è stato formalmente fatto pagare il prezzo di aver favorito l’apertura agli uomini (e ai soldi) di Tripoli – concentrando allarme ed esternazioni sul «rischio» del bastone del comando in mano ai soci tedeschi. Non si può, poi, non notare la inconsueta e corposa frizione pubblica (e a difficoltà minimizzata) tra il giustamente allarmato e impegnato superministro dell’Economia Giulio Tremonti e gli uomini di Umberto Bossi. Nonché quelle, appena dissimulate, tra big leghisti.Vi è in tutto ciò un sapore di antico e di già veduto: quasi da Prima Repubblica. C’è, però, anche una debolezza nuova della politica, che una crisi di tal fatta in un orizzonte d’incertezze non avrebbe dovuto permettere e permettersi. Il tempo dei «garanti» e dei grandi «manovratori» è un ricordo già lontano e ancora oggi, per diversi e seri motivi, non gradito a tutti. Ma qualche sospiro nostalgico s’ode lo stesso. Noi, che non abbiamo di queste nostalgie, vorremmo solo augurarci la fine della guerra delle Signorie. E statisti sereni e vigili.
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