Ora tocca agli europei riprendersi la storia
giovedì 10 novembre 2016

L’impatto dell’elezione di Donald Trump sulla politica europea sarà verosimilmente forte e complesso, almeno se si prendono sul serio – come ora è necessario fare – i messaggi lanciati dal candidato repubblicano durante la campagna elettorale: relativizzazione delle sedi bilaterali e in particolare della Nato e 'abbandono' dell’Europa alle sue responsabilità, anzitutto per provvedere alla sua stessa difesa. L’impatto potrà avere almeno due dimensioni: l’elettorato da un lato, le élite politiche dall’altro.

Dal primo punto di vista l’elezione di Trump potrebbe essere un capitolo dell’irresistibile ascesa dei linguaggi populisti e del rifiuto della globalizzazione (il trend che ormai molti definiscono deglobalizzazione), coagulando il consenso – o la rivolta verso l’ establishment – dei cosiddetti perdenti della globalizzazione. Ma qui interessa soprattutto chiedersi se le élite europee, pur composite e oggi sotto attacco, quindi deboli e inevitabilmente tentate di ripiegare sui rispettivi orticelli, saranno capaci di proporre una risposta politica alternativa.

Quest’ultima, del resto, sembra imposta dai fatti: il disimpegno degli Stati Uniti dall’arena politica europea e medio-orientale (già notevole nel secondo mandato del presidente Obama e ora verosimilmente destinato ad accentuarsi con la prossima amministrazione) pone l’Europa davanti a una domanda radicale: può l’attuale «unione a lungo termine di Stati che continuano ad essere sovrani» trasformarsi in uno spazio in cui popoli dalla storia diversa diventano effettivamente una comunità di destino? Ciò comporta un radicale mutamento di prospettiva rispetto ad assunti ancora largamente prevalenti fino a ieri.

La scommessa per l’Europa, di fronte alla fine del 'protettorato' americano su di essa, costruito all’indomani del secondo conflitto mondiale, è semplicemente quella di riprendere pienamente in mano la propria storia. Non, però, per pensarsi solo come un attore del processo di globalizzazione dell’economia, quanto, piuttosto, per configurarsi come una comunità politica a tutti gli effetti. Come qualcosa di simile a un vero Stato federale europeo, certo articolato in maniera da tenere conto della diversità delle sue componenti, ma costruito attorno a un centro unitario, che accetti la sfida di concepirsi come 'sovrano', pur con tutte le cautele che si impongono nell’utilizzazione del concetto di sovranità nel nostro tempo.

In altre parole: se la Brexit e l’elezione di Trump (oltre a vari segni che vengono dall’esterno dell’Occidente) sono il segno che è in atto una sorta di deglobalizzazione, l’Europa è troppo pesante per gli Stati membri in quanto attore globalizzante ed è oggi troppo debole come comunità di destino. La sfida per le classi dirigenti europee (politiche e non solo) è gigantesca. I principali leader politici del Vecchio Continente (Merkel, Hollande, Rajoy) sembrano oggi avere la statura di buoni gestori dell’esistente e non quella di possibili progettisti di un salto di qualità verso una statualità europea. Ed il leader più vibrante che circola oggi in Europa – alludiamo a Matteo Renzi – opera sotto la spada di Damocle di una consultazione referendaria che potrebbe spazzarlo via o quantomeno trasformarlo in un’anatra zoppa. Saranno perciò decisive le elezioni francesi e tedesche del prossimo anno: in particolare le prime, nelle quali la candidatura di Alain Juppé potrebbe fornire un leader con la caratura ideologica (retroterra gollista, ma aperture liberali e consapevolezza europea) necessaria a 'pensare' un salto in avanti per l’Europa.

Ogni discorso potrebbe essere vano se dalle elezioni francesi uscisse una presidenza di Marine Le Pen e se le elezioni tedesche partorissero alla fine una coalizione di sinistra-sinistra fra socialdemocratici, verdi e postcomunisti. Ma se l’esito di quelle consultazioni (e del referendum italiano) non vedesse prevalere sfumature diverse di populismi, lo spazio per un rilancio del progetto federale europeo potrebbe riaprirsi. Magari 'alleggerendo' l’attuale Europa a 28 (27 senza il Regno Unito), riconfigurata come un quadro consensuale attorno a cui i Paesi fondatori delle Comunità europee potrebbero lanciare l’avventura di una nuova statualità comune, aperta agli Stati disponibili a condividerla. Fino a oggi, tutto ciò fino – vale a dire una vera e propria riapertura del processo costituente europeo – rientrava nello spazio dell’utopia. Ma l’elezione di Trump potrebbe innescare le premesse per un salto di qualità. L’alternativa rischia di essere semplicemente il congedo puro e semplice dell’Europa dallo scenario della grande storia.

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