Ora tocca a Pechino
mercoledì 6 maggio 2020

Il SARS-CoV-2 proviene da Wuhan, provincia dell’Hubei, Cina. Su questo dato nessun esperto sembra avere dubbi. Il virus che causa il Covid-19 e che sta provocando centinaia di migliaia di morti e una crisi economica epocale nel mondo intero è di origine geografica cinese. Oltre questo fatto acclarato non siamo in grado oggi ragionevolmente di spingerci, anche se sono state formulate ipotesi fondate e altre totalmente azzardate. Ma su questa incertezza scientifica rischia di disputarsi una partita politica straordinariamente delicata e capace di modificare gli equilibri globali.
Innanzitutto, si prospetta una potenziale escalation fra Washington e Pechino, con l’accusa americana di avere pericolosamente e negligentemente "giocato" in laboratorio con agenti patogeni di origine animale e di avere così creato il nuovo virus poi sfuggito al controllo. In subordine, c’è l’occasione offerta al presidente Trump di trovare un bersaglio di comodo su cui fare ruotare la propria campagna elettorale per la rielezione alla Casa Bianca. Scenari ovviamente collegati, come un razzo a più stadi, se è lecita la metafora. Sembra infatti abbastanza chiaro che gli Stati Uniti non hanno prove della responsabilità diretta cinese in laboratori al cui funzionamento e alla cui sicurezza hanno contribuito insieme con altri Paesi occidentali. Né qualche testimonianza anonima e postuma probabilmente potrà fare cambiare idee a legioni di ricercatori che, dati scientifici alla mano, sono convinti che il virus sia una mutazione naturale passata da animale a uomo, forse nel mercato di Wuhan.
Tuttavia, è quasi certo che i vertici cinesi non solo hanno cercato di nascondere prima e minimizzare poi il contagio (si ricorderà la vicenda del dottor Li Wenliang, osteggiato e minacciato per aver lanciato l’allarme sul nuovo tipo di polmonite e riabilitato solo dopo la sua morte per Covid-19), ma hanno verosimilmente messo in atto una strategia complessiva per minimizzare i danni interni a costo di peggiorare, anche se non intenzionalmente, la situazione di altri Paesi.

Si tratterebbe, se dimostrato, di un comportamento censurabile e forse "criminale", nella misura in cui lo diremmo di un cittadino italiano che, sapendo di essere positivo, uscisse di casa e frequentasse senza adeguate protezioni una serie di luoghi pubblici affollati, pur senza la volontà di contagiare il prossimo. Si possono chiedere i danni per una condotta simile? A livello individuale, sì. A livello di Stati, soprattutto senza prove certe, sarebbe molto complicato. E le conseguenze, soprattutto quando non si va davanti a un giudice, bensì si lanciano accuse e preannunciano sanzioni unilaterali fra superpotenze, possono essere molto serie. Tanto serie che nessuno degli alleati dell’America (a causa di Trump, spesso più tiepidi che in passato) vuole seguire l’Amministrazione nella sua accelerazione per incolpare Pechino dell’origine artificiale del virus. Sia perché non credono a questa ipotesi sia perché non vogliono essere coinvolti in una guerra commerciale con il gigante asiatico, foriera di ulteriori danni alle proprie economie già pesantemente colpite dalla pandemia.
Ci si può chiedere se il capo della Casa Bianca sia davvero convinto di andare fino in fondo, magari riaccendendo la sfida a colpi di dazi. Imprenditori e lavoratori che lo sostengono non gradirebbero troppo il rinnovato duello che penalizza anche le performance di Wall Street, di cui Trump fino a pochi mesi fa poteva vantarsi come segno del suo tocco magico e che già hanno subito una brusca frenata. Il presidente Usa potrebbe allora limitarsi ad alzare la tensione e "accontentarsi" di una indagine indipendente dell’odiata Organizzazione mondiale della sanità, contestandone poi i risultati.

Liberatosi del primo stadio del razzo, utile per staccarsi dal suolo, gli rimarrebbe il secondo e per lui più importante modulo per raggiungere la meta: un perfetto meccanismo di propaganda elettorale centrato sulla sfida cinese. Chi più di lui può contrastare il nuovo nemico che vuole infettare gli Stati Uniti, secondo una consolidata tradizione politico-sociale americana che vede nell’incombente minaccia esterna la continua mobilitazione del bene contro il male? Quali garanzie può dare il candidato democratico Joe Biden il cui figlio 'faceva affari con Pechino' e che non mostra pose guerresche? Lo spauracchio cinese sembra destinato a diventare il leitmotiv della campagna di Trump di qui a novembre e risultare, dal suo punto di vista, una scelta azzeccata Parte del suo elettorato, la classe media bianca, si ritrova impoverito e senza cure garantite in un’emergenza senza precedenti, indispettito dal lockdown, la grande quarantena collettiva che ha limitato le libertà personali in un modo che non ha precedenti. Niente di meglio che proporre un responsabile lontano e caricaturale per tutto questo, un responsabile contro cui accanirsi a parole e costruire un fronte comune. Non è detto che sia sufficiente per mascherare tutte le gravi insufficienze di un leader ondivago, a dire poco, nel gestire la crisi. Certo, Trump non troverà troppe sponde in un’Europa che ha maltrattato e per questo non lo ama. Neppure ci si potrà buttare con Pechino, di cui non possiamo fare a meno ma che resta un partner-competitore assai problematico. Una mossa spetta ora a Xi Jinping. Vorrà (e potrà) diradare le zone d’ombra per scaricare le armi di Trump? Oppure lascerà che i sospetti continuino ad aleggiare? La partita politica sul virus, anche con l’auspicato calo dei contagi, è destinata a rimanere aperta e preoccupante.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI