martedì 18 maggio 2010
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Quella in cui sono caduti il sergente Massimiliano Ramadù e il caporalmaggiore Luigi Pascazio è la guerra più lunga combattuta dagli Stati Uniti. Da quasi nove anni le truppe americane sono in Afghanistan, dal 2004 si è unito un contingente italiano, che finora ha perso 22 valorosi militari. Non è né polemico né paradossale parlare di conflitto Usa, dato che l’intervento è stato la reazione all’attacco dell’11 settembre, logisticamente partito da Kabul, e che il grosso delle truppe e il comando sostanziale delle operazioni sono a stelle e strisce. La nostra presenza è meno belligerante e più di stabilizzazione e di pacificazione, ma di fronte a nuovi lutti che addolorano e interrogano il Paese può essere utile chiedersi a che punto è l’impresa cui le nostre Forze armate stanno dando un contributo in termini di sacrificio, di impegno e di efficacia. Che non si possa "fuggire", come ha detto Umberto Bossi, in passato tra i più critici sulla missione, è un dato di fatto generalmente accettato. Che non si possa restare a tempo indeterminato lo ha detto e stabilito anche Barack Obama, il quale ha dato via libera a un aumento di effettivi per combattere i taleban, ma ha pure posto il 2013 come data chiave per il disimpegno. Vi sono molte sensate ragioni per proseguire nel tentativo di rendere l’Afghanistan uno Stato minimamente funzionante, che vanno anche al di là del primo obiettivo di Washington, ovvero evitare un altro devastante attacco al proprio territorio che parta dai santuari di al-Qaeda nel Paese asiatico. In primo luogo, una "sconfitta" della Nato (la prima della sua storia) darebbe una straordinaria arma di propaganda all’estremismo islamico e, soprattutto, potrebbe avere ripercussioni sulla tenuta del vicino Pakistan, potenza nucleare e sempre in tensione con il gigante indiano. C’è anche una sorta di obbligo morale con la popolazione, da trent’anni senza pace (l’invasione sovietica è del 1979), con almeno un milione di vittime per la violenza e una condizione che potrebbe solo peggiorare se tornasse al potere il radicalismo musulmano nemico della modernità. Sull’altro versante, non mancano i motivi per lo scetticismo. Innanzitutto, la durata del conflitto, che non fa sperare in una rapida soluzione, malgrado il cambio di strategia deciso dalla Casa Bianca. I soldati stranieri schierati arriveranno a 150mila, le forze afghane saliranno forse a 200mila, ma secondo i calcoli del generale Petraeus per un Paese di 30 milioni di abitanti, un territorio impervio e una guerriglia diffusa servirebbero 600mila uomini. Capire se il surge funzionerà come è avvenuto in Iraq richiederà comunque tempo. Intanto, l’azione del nostro contingente potrà certamente portare alcuni benefici alle popolazioni locali, in termini di protezione e di aiuto. Tuttavia, posti il rischio crescente e le perdite che è purtroppo immaginabile non si fermeranno, bisogna guardare all’obiettivo più ampio. Si riuscirà a fare dell’Afghanistan non un Eden, come ha detto il ministro Usa Gates, ma almeno non uno Stato fallito? Molto dipenderà anche dai governanti locali, che finora non hanno dato buona prova. Corruzione e inefficienza contribuiscono a screditare le istituzioni agli occhi dei cittadini, non al punto da fare preferire i taleban, nemmeno però a quello di mobilitarsi in massa per il loro rafforzamento.Arrivano anche segnali positivi: la qualità e il tenore di vita della popolazione lentamente salgono, la collaborazione con gli "stranieri" in alcune zone segna decisi progressi...Resistere e insistere è ancora la via da perseguire. Rendendo omaggio ai soldati che sono coraggiosamente sulla prima linea. E perseguendo anche una conduzione politica più accorta del conflitto. Non possiamo, nemmeno oggi, dimenticare le numerosissime vittime civili, né il ruolo che deve avere la diplomazia. Perché il dolore e i lutti siano alleviati da un successo che non potrà essere solo militare.
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