martedì 29 giugno 2010
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Nel fondo della crisi più dolorosa Benedetto XVI ha scelto la vigilia della festa di san Pietro e san Paolo, e il luogo della tomba dell’Apostolo delle genti, per rendere pubblico il progetto che da tempo gli stava a cuore: un dicastero per una nuova evangelizzazione delle terre delle «Chiese di antica fondazione»". Annuncio ambizioso e umile: giacché afferma a chiare lettere che l’eredità cristiana in molto dell’Occidente è profondamente erosa. Avversata, o semplicemente accantonata in una distratta eclissi di Dio. Occorre, dice il Papa, riportare la fede in Cristo nelle nostre città secolarizzate.C’è un filo lungo e forte di continuità tra questo annuncio e la voce della Chiesa negli ultimi decenni, dalla Evangelii Nuntiandi di Paolo VI alla «nuova evangelizzazione» evocata per la prima volta da Wojtyla nel 1979 a Nowa Huta, la città operaia polacca che sembrava essere stata costruita per escludere la presenza di Dio fra gli uomini. E dunque la sfida lanciata oggi da Benedetto viene da lontano; da un testimone passato da una mano all’altra, nelle crescente consapevolezza che l’Europa innanzi tutto, e più ampiamente il Primo Mondo, si stanno dimenticando della loro origine, e dunque anche di sé.Ratzinger stesso, prima della elezione, aveva scritto di una Europa «svuotata dall’interno» proprio nell’ora del suo massimo successo; di un cedimento di forze spirituali portanti, di «una strana mancanza di voglia di futuro»", di un oscuro «odio a sé». Il confronto con l’Impero romano al tramonto, aveva ammesso, si poneva. Come se l’Occidente andasse esaurendo il suo slancio vitale. E pensosamente il futuro Papa esaminava le tesi di Oswald Spengler, lo storico secondo il quale ogni civiltà, come un organismo, nasce, invecchia e muore. Ma le ultime righe di quel saggio del cardinale Ratzinger contraddicevano questa inesorabile ipotesi biologica: i cristiani, si diceva, devono concepire se stessi come «minoranza creativa» che riporti all’Occidente la sua eredità.Era il 2004. Pochi mesi dopo Ratzinger sceglieva come nome quello di Benedetto, il patrono d’Europa. Poi pubblicava la Spe salvi, dove evocava gli Efesini del tempo di Paolo, «senza speranza e senza Dio nel mondo»: e ne parlava come se quella gente di duemila anni fa ci somigliasse. Infine domandava apertamente: «La fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita?».Già: perché il Vangelo o è «comunicazione che produce fatti e cambia la vita», come scrive il Papa, o non è niente. E allora questa Europa e questo Primo Mondo «svuotati», che han paura dei figli e del futuro, tesi al successo o impegnati a non pensare, si palesano come «terra di missione». Dove il cristianesimo è nato, cresciuto, dove ha alimentato gli uomini e le città e l’arte e intriso di sé la memoria, occorre di nuovo evangelizzare. Con umile coraggio, ricominciare a annunciare Cristo.Chi ha amato le parole della Spe salvi, e quella provocatoria domanda – ma, il cristianesimo è ancora speranza che sorregge la vostra vita? – ritrova lo stesso accento nell’annuncio di ieri. La stessa sfida. Credete voi in Cristo? E com’è possibile allora che le vostre case e città siano così spesso smarrite, sfiatate, tristi, e i vostri figli si chiedano cosa fare di sé? La profezia secondo la quale i mondi e le loro culture inevitabilmente decadono e muoiono, come alberi invecchiati, urta con la pretesa cristiana, diversa e unica. Il cristianesimo non finisce; se decade, perfino se sembra avviato a un naufragio, ricomincia. Non è pensiero, filosofia di uomini, che muore come ogni nostra cosa. È altro, è quel Figlio che è nato fra noi, è morto e ha vinto la morte. Per chi ha fede in questo, il cristianesimo «produce fatti e cambia la vita».Dal sepolcro di Paolo una domanda lanciata a noi della parte "giusta" del mondo, nelle nostre comode case e pretese e garanzie. Domanda a noi, cui non manca quasi nulla. Davvero questo vi basta? Siete felici, davvero? Ma lo sapete infine, ha detto Benedetto XVI, che «c’è una fame più profonda, che solo Dio può saziare».
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