venerdì 17 settembre 2010
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Nel discorso di benvenuto rivolto al nuovo ambasciatore tedesco, il Papa, con parole cristalline come sempre, ha puntato al cuore del problema che affligge gran parte del mondo contemporaneo, e in particolare i Paesi occidentali. La strisciante sostituzione di un Dio personale con l’idea di un essere supremo «misterioso e indeterminato», che non manifesta una sua precisa volontà (rintracciabile nell’ordine creaturale), rende incerti i confini del bene e del male. In questa confusione, nella coscienza sociale anche il concetto cristiano di matrimonio e famiglia tende a sfumare, perdendo il proprio significato. Sta accadendo, è già accaduto in tanti Paesi, dove parlare di "famiglie" al plurale è semplicemente un dato di fatto, alimentato anche dalla possibilità di svincolare la procreazione dal rapporto tra un uomo e una donna. Basti ricordare che oggi un bambino può avere sino a 6 genitori, due "sociali", che possono essere di sesso diverso o uguale, e 4 biologici. È uno dei sintomi della grande mutazione postmoderna, che avvera quotidianamente quello che il Pontefice ha spiegato nell’ultima enciclica Caritas in veritate: la questione sociale è ormai integralmente antropologica. Ma noi cattolici, che come tutti siamo abituati a separare le due sfere, non sempre sappiamo riconoscere questa nuova commistione tra fenomeni che ci sono sempre apparsi lontani. La vita, la morte, la procreazione, sono ambiti che consideravamo scontati e immutabili, in cui l’intervento umano era assai limitato; sul terreno della giustizia sociale, invece, si poteva e si doveva agire, in una prospettiva antiutopica e attivamente solidaristica.Nonostante tutto sia cambiato, noi continuiamo a ragionare separando, e abbiamo difficoltà a decifrare i rischi che minacciano l’integrità dell’umano: questi sono simili a forme di inquinamento profondo, come quelle delle falde acquifere, e spesso non si avvertono, se non quando i sintomi di avvelenamento hanno contagiato il senso comune e la società.I cattolici sono stati tra i primi a lanciare l’allarme antropologico, e devono mantenere alta la guardia, per non farsi intrappolare dai luoghi comuni. La famiglia, appunto. Sembra, a volte, che il quoziente familiare o altre soluzioni di tipo economico siano l’obiettivo primario da portare a casa in difesa della famiglia. Ma di quale famiglia? Se andiamo a verificare cosa succede dove il quoziente è stato introdotto, i dubbi crescono. Pacs, famiglie allargate, crollo dei matrimoni religiosi e civili, percentuali astronomiche di madri single, numeri troppo alti di aborti tra le minori, indebolimento della figura paterna, sono la realtà sociale di molti Paesi, gli stessi che vengono portati ad esempio per i provvedimenti economici a favore della famiglia. Però, si ribatte, in quei Paesi, come Francia o Svezia, il tasso di natalità è un po’ più alto di quello italiano. Un risultato da registrare, da cui trarre insegnamenti, ma non da copiare pedissequamente.Dobbiamo essere chiari, perché la chiarezza terminologica è per noi fondamentale: sarebbe meglio parlare di «quoziente di natalità», piuttosto che di quoziente familiare. Può servire (come altri strumenti) a far crescere leggermente la percentuale di nuovi nati, ma non ad aiutare la famiglia, il matrimonio, la stabilità delle coppie. Per ottenere questo è necessaria, come dice il Papa –ribadendo un’affermazione di Giovanni Paolo II – una cultura della persona. Chi vuole davvero difendere la famiglia, e non solo incrementare la natalità, deve partire dalla situazione italiana e individuare strumenti appropriati, consoni alla nostra cultura e alla nostra specificità, e cercare di capire bene cosa producono gli eventuali interventi.
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