venerdì 18 settembre 2015
È affiorata in questi giorni – fino a balenare, a mezzo stampa, in forma di proposta al governo – l’idea che le persone in fuga dalla morte per guerra, per persecuzione, per fame debbano essere accolte nel nostro Paese solo se «cristiane», con corridoi umanitari ad hoc. Non è un’idea del tutto nuova... (Marco Tarquinio)
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È  affiorata in questi giorni – fino a balenare, a mezzo stampa, in forma di proposta al governo – l’idea che le persone in fuga dalla morte per guerra, per persecuzione, per fame debbano essere accolte nel nostro Paese solo se «cristiane», con corridoi umanitari ad hoc. Non è un’idea del tutto nuova. Possono in effetti verificarsi nella storia casi in cui questa generosità e solidarietà, per così dire mirate, finiscono per essere necessarie. E colpisce che, dopo tanta indifferenza complice, si aprano attentamente gli occhi sulla particolare sofferenza dei cristiani delle diverse confessioni nelle troppe terre d’Asia e d’Africa (ma anche delle Americhe) in cui sperimentano il martirio e fanno crescere, testimoniando insieme la fede in Cristo, quello che papa Francesco chiama l’«ecumenismo del sangue». Ma non è questo il caso, pur nel duro tempo che viviamo. Non è possibile immaginare un’accoglienza selettiva: abbracciare il profugo siriano o iracheno di fede cristiana e confinare oltre un filo spinato lo yazida o l’alauita o il druso o il musulmano (sciita o sunnita che sia). E come? Con quali strumenti del diritto delle genti, quali manganelli e, soprattutto, quale intelligenza umana e quale cuore? E comunque chi conosce il Vangelo e ascolta davvero la parola del Papa e dei successori degli apostoli, sa che una simile proposta non può essere neanche pensata in nome di Cristo. E perciò mai potrà essere avanzata in nome della comunità cristiana. Lo dico senza incertezze: mai in nome nostro.Ce lo siamo ripetuto infinite volte eppure mai abbastanza: i poveri e gli esiliati come ogni essere umano in qualunque condizione si ritrovi, non possono essere classificati per luogo di nascita o colore della pelle. Neppure per certificato di battesimo o pubblica professione di fede. Certo, magari qualcuno ricorderà che, in un passato ancor recente, alcuni uomini di Chiesa hanno ragionato sulla «laica» opportunità per l’Italia e l’Europa di privilegiare (sottolineo: privilegiare, non rendere esclusiva) l’immigrazione di persone e famiglie «più facilmente integrabili» nel contesto socioculturale, e dunque anche religioso, della Penisola e del Vecchio Continente. Ma, mentre ragionavano, quegli uomini innamorati di Gesù e impegnati a seguirlo non hanno mai smesso di praticare e far praticare l’accoglienza e la carità verso tutti. Nessuno escluso. Di ogni provenienza e di ogni fede. E soprattutto verso chi versava più urgentemente nel pericolo e nel bisogno. Dunque, chi ricorda a metà e usa maliziosamente contro la «Chiesa dell’accoglienza» le parole di questi uomini di Dio – è stato fatto e viene ancora fatto, con pesantezza, nel caso di due pastori che sono nella memoria di tutti noi, il cardinale Giacomo Biffi e il vescovo Alessandro Maggiolini – sappia che così si assume la responsabilità di sporcare indegnamente e indebitamente la loro predicazione e la loro concreta testimonianza cristiana.I cristiani non europei sono più di un miliardo e mezzo. Tanti di loro vivono e, spesso, patiscono difficoltà, discriminazioni e violenze che li riducono nelle diverse situazioni a poverissimo "piccolo gregge". Ma sono tenaci nella fedeltà e nella volontà di restare nelle proprie patrie e vengono sostenuti in diversi modi dalla rete di solidarietà costruita dalla Chiesa universale e dalle Chiese locali (anche questo giornale, assieme alla Focsiv sta promuovendo, con qualche utilità, iniziative specifiche). La Chiesa cattolica, però, pur impegnata in questo soccorso fraterno non fa distinzioni tra povero e povero: vicinanza e concreto aiuto vengono portati a tutti, ogni volta che questo è possibile e viene consentito (ma anche, con la discrezione e le collaborazioni necessarie, dove non sarebbe consentito).Quelli che sono costretti a fuggire, poi, sono tutti uguali. Mentre, come constatiamo con la morte nel cuore e sempre più dura indignazione di fronte ai nuovi "fatti d’Ungheria", siamo noi europei – e a volte, purtroppo, pure noi italiani – a non esserlo ancora abbastanza. Siamo noi a non riconoscere e onorare allo stesso modo le fondamentali leggi umane e l’indispensabile misura morale comune, che ogni legge precede e illumina. Siamo noi a dimenticare, o a considerare cosa da "anime belle", l’annuncio del Vangelo e il coraggio dell’incontro. Eppure solo questa forza civile e spirituale, che non è ingenua e non fa selezioni preventive, può consentirci di governare la convivenza nella diversità e la stagione sconvolgente eppure promettente delle forzate migrazioni e dell’intelligente accoglienza. Dobbiamo trovarla e spenderla. Per noi stessi e per tutti coloro che chiedono di vivere con noi.
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