Non è il respiratore che salva la vita ma l'integrale competenza di chi lo usa
venerdì 17 aprile 2020

Caro direttore,
mi chiamo Marco Gardini e sono un anestesista rianimatore presso l’Asst di Cremona, o ciò che ne rimane in questi giorni. Qualche sera fa, mentre ascoltavo le notizie dopo l’ennesimo turno massacrante, ho sentito una frase che mi ha fatto pensare, e mi ha spinto, malgrado la stanchezza, a scrivere. Il giornalista, raccontando le vicende americane così simili alle nostre, ha spiegato come alcune fabbriche statunitensi siano pronte a riconvertirsi per produrre «ciò che salva le vite in questa pandemia, ovvero il famoso respiratore». Una notizia che fa il paio con quella degli oligarchi russi che avrebbero speso cifre folli per dotare le loro abitazioni di un apposito respiratore nell’evenienza di essere colpiti da Covid–19 e di averne necessità. Ho capito, direttore, che purtroppo questa pandemia non ci sta facendo rinsavire dal nostro più grande peccato: l’adorazione dell’oggetto, l’idolatria dell’oggetto. Siamo convinti che i respiratori ci salveranno la vita. Non è così. I respiratori sono solo uno strumento in mano a persone che li usano per salvare vite, e queste persone se vogliamo dirla tutta sono anche loro, a loro volta, strumenti nelle mani di Dio, per chi ci crede. La corsa cieca al respiratore, senza sapere se ci sono abbastanza intensivisti per farli funzionare, ci ha fatto dimenticare il buonsenso e l’intelligenza nell’affrontare questa pandemia, come se si potesse come sempre produrre e comprare una soluzione. Ci ha fatto dimenticare che se non proteggiamo i nostri medici e infermieri, che si ammalano e muoiono ogni giorno facendo il loro lavoro, nessuno farà funzionare i respiratori. Ci ha fatto dimenticare che se non facciamo diagnosi precoce e non investiamo in strumenti diagnostici capillarmente, se non creiamo capitale umano in grado di fare tamponi, tracciare contatti, creare e gestire strutture di isolamento, non fermiamo questa malattia nemmeno stando in casa per tre anni, e nessuna fabbrica di respiratori potrà salvarci. Ragionare da consumatori della salute, magari cercando di “accaparrarsi il respiratore” senza utilizzare strategie veramente lungimiranti mirate alla salvaguardia della vita umana, ci farà scendere ancora di più nel baratro. Caro direttore, le chiedo di ascoltare queste parole non solo perché sono il sacrificio del mio tempo sottratto alla famiglia e al riposo, ma perché sono frutto di tanta sofferenza. Sofferenza nel vedere ancora e sempre malati martoriati e soli, sofferenza nel vedere allo specchio e negli occhi dei colleghi la paura di ammalarsi assieme a quella di non essere e fare abbastanza per tutte le persone che hanno bisogno, sofferenza per un mondo che non sa più trovare Gesù nella tempesta, e cerca solo la barca, anche se oggi la barca si chiama “respiratore”. Le chiedo con forza, dalla sua posizione di persona che ha il ruolo importante di informatore, di sostenere la battaglia scientificamente e razionalmente giusta della diagnosi come primo obiettivo, perché solo la diagnosi unita al distanziamento sociale trova i driver dell’infezione, i famosi positivi paucisintomatici o asintomatici, e ci permette di isolarli interrompendo la catena dei contagi. E fare diagnosi comporta da parte della politica (finora riluttante) uno sforzo di riorganizzazione e di unione tra laboratori pubblici e privati per sottoporre a test e tamponi la maggior parte di popolazione possibile, partendo dai soggetti a rischio e dai contatti dei sintomatici, seguendo strategie di successo applicate in Corea del Sud, Taiwan, Singapore per esempio e, per quanto possibile, anche nel nostro Veneto. Le chiedo ancora di sostenere una battaglia per la protezione dei sanitari, perché la medaglia da eroe che continuano ad appuntarci sul camice non fa tanta luce se sei morto perché non ti è stata data la possibilità di proteggerti mentre curi i malati in prima linea. Le chiedo infine di sostenere una battaglia culturale, per far si che quando tutto sarà finito non riscopriamo il valore dell’aperitivo, diventando consumatori ancora più accaniti, ma per riscoprire il valore delle persone, delle vite che spezziamo con così tanta facilità nei grembi delle madri o che ci passano di fianco con indifferenza nei poveri del mondo, nelle vittime di guerre e carestie. So di chiederle molto, ma sono sicuro che, per una volta, penso di potermi permettere di fare così tante richieste. Grazie, con stima.

Marco Gardini medico

Caro dottor Gardini, non so se a sera quando torna a casa dall’ospedale ha anche la forza e il tempo di dare almeno una sbirciata al giornale che i miei colleghi d’Avvenire e io stiamo costruendo giorno dopo giorno. Credo di sì, e comunque lo spero, perché così si sarà reso conto che i suoi motivati appelli li avevamo cominciati ad ascoltare già mentre lei li formulava con tanta passione ed efficacia e che col nostro lavoro d’informazione e di orientamento di concittadini e, anche, di amministratori pubblici stiamo cercando di essere il più possibile all’altezza del prezioso, competente e generoso lavoro di medici e infermieri e di tutti i loro collaboratori negli ospedali e in ogni altro luogo di cura e assistenza. Perché non ci sono solo eroi e traditori, angeli e demoni, anche nelle situazioni e nei settori finiti sotto la lente delle inchieste giornalistiche (nostre e di altri media) e delle indagini giudiziarie. E vengo rapidamente al cuore della sua lettera–testimonianza, l’«idolatria dell’oggetto» anche nei giorni della pandemia. Ovvero il sogno (comprensibile, ma insensato) di poter disporre di uno strumento–bacchetta magica che ci faccia sentire protetti e ci salvi. Lei giustamente mi e ci ricorda che ciò che conta sono l’intelligenza, il cuore e l’anima – in un’immagine la competenza professionale e umana – delle persone che maneggiano quegli strumenti. Ciò che conta, caro amico, è la sua voce. Alla quale mi limito con convinzione a unire la mia. Grazie.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI