mercoledì 8 dicembre 2010
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Nell’aria da tempo, la questione dei poteri del Quirinale in caso di sfiducia al governo è finalmente venuta alla luce in questi giorni. La questione può essere riassunta in questi termini: in caso di sfiducia e di dimissioni del governo Berlusconi IV, quale via deve seguire il capo dello Stato? È tenuto a sciogliere le Camere – come chiede il presidente del Consiglio – in quanto la parola va restituita agli elettori che avevano designato nel 2008 la maggioranza uscente? Oppure vi è un’altra strada a disposizione del Quirinale: la formazione di un nuovo governo, eventualmente con un altro presidente del Consiglio e un’altra maggioranza, qualora questa si riveli esistente nelle due Camere?A prima vista, la domanda sembrerebbe priva di ragion d’essere. La Costituzione italiana prevede una forma di governo parlamentare, nella quale gli elettori scelgono solo il Parlamento e non eleggono direttamente il presidente del Consiglio. Quest’ultimo, e i suoi ministri, sono nominati dal presidente della Repubblica in quanto leaders della maggioranza parlamentare e quindi in quanto capaci di godere della fiducia parlamentare. Se la fiducia viene meno, e il Parlamento è in grado di esprimere un altro governo, il capo dello Stato deve ratificare tale passaggio. Questa lettura delle crisi di governo e del potere di scioglimento si è consolidata dal 1948 al 1992.Tuttavia i sostenitori del ricorso alle urne in caso di crisi sostengono che il quadro ora indicato è stato modificato dall’introduzione nel 1993 di un sistema elettorale prevalentemente maggioritario. Aspetto confermato dalla riforma elettorale del 2005. Gli elettori possono scegliere, oltre ai loro rappresentanti, anche la maggioranza parlamentare (che non sarebbe più il prodotto di accordi post-elettorali fra i partiti), un programma e un leader. Venuta meno la maggioranza, non resterebbe che tornare alle urne. Ogni altra soluzione sarebbe legale, ma non legittima e per essa esiste già un nome, coniato in occasione della crisi del 1994: ribaltone.La scelta fra le due letture ora sintetizzate non può essere compiuta sul piano delle preferenze ideologiche, ma va ricondotta al rapporto fra le due dimensioni che, sia pur confusamente, l’onorevole Verdini ha evocato venerdì scorso: le prerogative del Quirinale e quelle del sistema dei partiti.È un fatto che la Costituzione del 1947 non è cambiata. Essa continua a prevedere un regime parlamentare, e secondo i principi di questo una crisi di governo non genera necessariamente elezioni. Dal Parlamento, quindi, può nascere un altro governo. Se la legge elettorale avesse prodotto regole contrastanti con quella appena evocata, essa sarebbe da ritenere incostituzionale: secondo la gerarchia delle fonti normative prevista dalla nostra Costituzione non è infatti pensabile che una legge elettorale produca regole sul rapporto fra i poteri dello Stato diverse da quelle risultanti dalla Carta costituzionale. Ma vi è un altro piano: quello dei partiti politici. È su questo livello che hanno operato le leggi elettorali del 1993 e del 2005: qui sono nate logiche nuove, in virtù delle quali gli elettori scelgono, grazie alla legge elettorale, una maggioranza, un programma e un leader. Questo assetto è però prodotto unicamente della capacità di autoregolazione del sistema dei partiti: se tale sistema genere un assetto in cui alla sfiducia non può in fatto seguire un governo alternativo, il capo dello Stato non può che prenderne atto e sciogliere le Camere, come fece lo stesso Napolitano nel 2008. È l’impossibilità di fatto di una scelta alternativa a dettare l’unico comportamento possibile del capo dello Stato.Se l’assetto partitico non è, insomma, capace di "svuotare" le prerogative del Quirinale, queste tornano in primo piano, assieme alla logica di fondo del regime parlamentare. In questa prospettiva, qualunque governo alternativo all’attuale che goda di una maggioranza nelle due Camere è legittimo e spetta al capo dello Stato verificare se esso sia praticabile.
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