sabato 28 novembre 2015
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Esiste o no, per la legge italiana, un divieto di indossare il burqa? La norma invocata per sostenere l’esistenza del divieto, è l’articolo 5 della legge 152/75 (conosciuta come Legge Reale). Essa punisce (con l’arresto da uno a due anni) due diverse condotte: quella di chi usa caschi protettivi o «qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo»; nonché quella di chi, in ogni caso (e dunque senza possibilità di «giustificato motivo») usa i predetti copricapo o indumenti «in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico». Quindi, due diversi contesti: nella vita normale, c’è il divieto di coprirsi il volto in pubblico a meno che vi siano «giustificati motivi»; nel corso di manifestazioni, il divieto è assoluto. Quest’ultima parte della norma ci rammenta la sua genesi storica: essa fu introdotta, a tutela dell’ordine pubblico, nel 1975, per fronteggiare il diffuso fenomeno dell’utilizzo di caschi o altri indumenti che mascheravano completamente il volto durante manifestazioni di piazza. Lo ricordiamo perché dell’origine storica di una norma conviene sempre tener conto, ai fini della sua corretta interpretazione, anche sistematica. Il punto essenziale è chiaro. Poiché le donne che indossano il burqa non lo fanno certo durante manifestazioni sportive o politiche, si tratta di stabilire se portare il burqa in presunto ossequio ai princìpi della religione islamica (sia pure secondo un’interpretazione minoritaria) costituisca o no un «giustificato motivo». È un interrogativo, di per sé, gravido di discussioni, polemiche e battaglie ideologiche. Ma è anche un interrogativo che, nel suo piccolo, ci dice che cosa significhi, in concreto, la discrezionalità del giudice nell’applicare la legge. Alcuni anni fa, la Procura di Torino chiese e ottenne l’archiviazione dell’imputazione di articolo 5 della Legge Reale per una donna nord-africana che era stata denunciata ai carabinieri da un privato cittadino che l’aveva vista passeggiare, a fianco del marito, nel centro di un paese. I carabinieri, trasmettendo la denuncia, avevano opportunamente segnalato che, su richiesta del denunciante, loro stessi avevano contattato la coppia e chiesto di identificare la signora.E che, a tale richiesta, il marito che accompagnava la donna le aveva fatto sollevare il velo e la signora aveva esibito i documenti, consentendo così di accertarne le generalità. Nel chiedere l’archiviazione, la Procura osservò che la differenziazione tra situazioni diverse prevista dalla legge (manifestazioni o semplicemente in pubblico) spinge a «ritenere che, in contesti in cui non sia oggettivamente a rischio l’ordine pubblico, il divieto vada applicato con estrema cautela». Tanto più qualora – come in quel caso – «la persona interessata abbia immediatamente risposto alla richiesta di identificazione dell’Autorità Pubblica». E concludeva che il divieto imposto dalla Legge Reale deve coniugarsi con l’art. 8 della Costituzione («Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge») e il diritto (previsto e tutelato dall’art. 19) di manifestare «in qualsiasi forma» (e dunque anche attraverso la propria immagine esteriore) la propria fede e appartenenza religiosa, con l’unico limite del «buon costume» (nel caso in esame palesemente rispettato).  Si può essere d’accordo o meno con la decisione dei magistrati torinesi. Può lasciare qualche perplessità il fatto che, di fronte alla richiesta dei carabinieri, la donna sollevò il velo soltanto dopo l’autorizzazione del marito (ma questa considerazione apre un’altra questione, sulla volontarietà del portare il burqa, che in quel caso non fu trattata).  Certamente, si può osservare che la prudenza nell’applicare la Legge Reale è comprensibile fino a che ci si trovi di fronte a casi isolati. Ma che le cose cambierebbero se l’indossare il burqa divenisse un comportamento di massa: se in interi quartieri delle nostre città tutte le donne portassero il burqa, si porrebbe forse un problema di ordine pubblico. Ma in tal caso probabilmente interverrebbe una legge più precisa. E comunque, per fortuna, non ci troviamo in tale situazione. E, ci sia consentito osservare, forse non ci troviamo in tale situazione anche perché, fino ad ora, non si sono scatenate guerre sui simboli. E il legislatore non ha fatto leggi draconiane, ma ha lasciato, al prudente apprezzamento di chi le applica, una benefica discrezionalità. Non è il caso, non è il momento, di scatenare proprio ora guerre di questo tipo.
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