domenica 6 marzo 2011
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Nessuno scrive più al Colonnello. E ormai gli sono rimasti ormai soltanto tre o quattro "soci in affari" che con lui condividono i metodi per restare in sella: il venezuelano Hugo Chavez, il cubano Fidel Castro e gli africani Robert Mugabe (Zimbabwe) e Omar el-Bashir (Sudan). Ma Gheddafi sembra essersene fatta una ragione, perché è proprio al presidente sudanese che in questi giorni sembra sempre più rassomigliare.Ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e genocidio nel Darfur, imperituro continua a governare sul Sudan. Protetto dai cinesi che comprano il suo petrolio ( e che da tempo, per la sete di energia che hanno, stanno puntando a salire verso il Maghreb) e da qualche collega africano che sa di poter fare la sua stessa fine. Le sanzioni che gli erano state imposte da Clinton per aver protetto Osama Benladen non l’hanno neanche scalfito: per un golpista che ha fatto terra bruciata intorno a sé dopo la salita al potere ci voleva ben altro. Perché poi, la storia lo prova, le sanzioni le scontano sempre i cittadini, non i loro padroni. E come Bashir anche Gheddafi, messo sotto inchiesta dalla Corte dell’Aja, possiede un’arma potente da brandire contro il mondo: messo alle strette il sudanese scatena a comando i suoi janjaweed che seminano terrore e morte tra i disperati del Dafur, il rais ha invece legioni di profughi da scaricare a comando al di là del Mediterraneo.Con il passare dei giorni poi, quel bunker nel quale rapidamente in molti l’avevano relegato disegnandogli baffetti sotto il naso e fiale di cianuro pronte alla bisogna, si sta sempre più allargando. E su quella sella potrebbe rimanerci ancora, da navigato cammelliere qual è. Gheddafi non è Milosevic, la Libia non è il Kosovo e la geopolitica, come la storia, sono diverse. Un intervento armato o un’eventuale no-fly-zone, al di là delle notizie vere (poche) e della controinformazione (tanta) sulla situazione sul campo, spaventa tutti. Obama per primo. Sia da un punto di vista tattico-militare, sia di impatto su una realtà nordafricana che gli americani si sono dimostrati da tempo poco capaci di comprendere.L’Occidente si ritrova così, giorno dopo giorno, con un’arma diplomatica sempre più spuntata e con soluzioni "tattiche" sempre più limitate. Così, può forse spaventare il fatto che l’America consideri ancora aperte "tutte le opzioni", può preoccupare l’assenza di informazioni certe su cosa stia succedendo nelle città in mano ai rivoltosi messe a ferro e fuoco e può creare timori una situazione che diventa sempre più fluida e rischia di replicarsi a lungo spingendo al rialzo il prezzo dell’oro nero. Ma la "guerra civile di Libia" costituisce anche una casella fondamentale nel domino che si stava concatenando, dalla Tunisia di Ben Ali, passando per l’Egitto di Mubarak e arrivando forse un giorno fino al bersaglio grosso finale dell’Arabia Saudita. Il fallimento della rivolta libica potrebbe infatti gelare molti entusiasmi e, soprattutto, mettere il mondo davanti a un dato di fatto: il non aver saputo prevedere, o meglio, non essere stati pronti a gestire una situazione di insofferenza che nasceva da regimi "democraticamente dittatoriali". Spesso blanditi e sempre tollerati. Anche dagli stessi che prima ci hanno fatto affari insieme e ora ne denunciano le nefandezze.Tutto è possibile, naturalmente ed è presto per azzardare previsioni su come andrà a finire. Ma se Gheddafi, alias il "re dei re" dell’Africa, alla fine restasse in qualche modo al suo posto, presto qualcuno potrebbe tornare a scrivere al Colonnello. In fondo l’inchiostro ha lo stesso colore del petrolio. Ma il petrolio, si sa, vale assai più dell’inchiostro.
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