Nessuno (o quasi) sarà come prima
domenica 1 settembre 2019

In questi giorni, da diversi punti di osservazione e giustamente, sono state evidenziate le differenze di posizioni pregresse e di culture politiche delle due principali formazioni che sostengono il nuovo governo Conte (che è concettualmente sbagliato definire Conte-bis). Una sintesi, quella tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico che non potrà giovarsi neppure di quell’amalgama costituita dal rappresentarsi come partiti anti-sistema che invece almeno esisteva nel caso della precedente coalizione giallo-verde.
È però utile proporre una lettura diversa, meno schiacciata sul presente e determinata dal passato e più attenta alle prospettive future, partendo da una considerazione semplice e potenzialmente condivisibile: come tutti gli organismi, anche gli organismi politici devono, per sopravvivere, combinare capacità e fasi di evoluzione e capacità e fasi di assestamento. L’ambiente e le circostanze mettono ciclicamente in gioco evoluzione e assestamento. Se guardiamo tanto al Pd quanto al M5s, sembra che la decisione, sofferta per entrambi, di provare a trovare una sintesi che consenta di condividere le responsabilità e le scelte che questa nuova fase politica comporta li costringerà a una necessaria evoluzione delle proprie rispettive identità e piattaforme.

Nonostante la determinante mossa renziana, inizialmente subita da Zingaretti, di aprire a una collaborazione con i pentastellati, il Pd che ha scelto l’appoggio a Conte non è più il Pd di Renzi. Proprio per essere riuscito a gestire con lucidità e realismo e a fare sua quella che poteva sembrare un ritorno sulla scena del "fiorentino", la leadership di Zingaretti esce rafforzata. Per il contenuto programmatico (green economy, lotta alle disuguaglianze, inclusione, equità) che il Pd ha proposto, dimostrando di ascoltare voci "dal basso", la stessa identità del partito ne esce trasformata. Il Pd di Zingaretti non è, e non può più essere, una sorta di partito post-blairiano; ma scommette di riuscire a evolversi in un soggetto maggiormente popolare e maggiormente critico verso l’attuale dis-equilibrio economico globale. Deve recuperare la sua vocazione popolare, declinandola nel XXI secolo e smettendo di concepirsi come la fusione a freddo degli orfani del Pci e della Dc, un sopravvissuto del XX secolo, del crollo del comunismo e della fine della Guerra fredda.

Anche il M5s deve evolversi. Non può più giocare sull’ambiguità di essere il côté popolare di un’alleanza di destra, non può più illudersi di fare scelte contraddittorie con la sensibilità e i valori di una parte importante del suo seguito (si pensi ai contestabili, persino liberticidi e disumani Decreti Sicurezza), sperando poi di cavarsela con dichiarazioni formali o furbeschi voti d’aula. Soprattutto dovrà decidere se vuole essere una forza del cambiamento possibile in Italia e in Europa (in una fase storica in cui si aprono prospettive continentali e globali in tal senso) o un radicale predicatore di sventure. Anche per i "grillini", ciò che ne sta ridefinendo la leadership (la triangolazione Conte-Di Maio-Grillo) spinge a favore di un’evoluzione o della dissoluzione. E per entrambi i soggetti politici, M5s e Pd, l’essere presto insieme al governo e l’occhio di simpatia e la disponibilità con cui partner e alleati internazionali guardano a un esecutivo liberato dalle ossessioni sovraniste, è una opportunità che potrebbe spingere a proseguire nella fase evolutiva: di cui entrambi i partiti hanno bisogno e nella quale entrambi i partiti hanno fin qui fallito. L’unica sintesi possibile è nel dismettere sia conservazione sia rivoluzione, per farsi promotori di un attivo riformismo, attento alle esigenze di inclusione sociale, politica ed economica: la sola che può valorizzare le risorse del Paese, dare senso e governo ai flussi migratori e creare ricchezza per tutti.

Se questa evoluzione si intraprende, il governo arriverà a fine legislatura e i due soggetti politici che nel 2023 si presenteranno al giudizio degli elettori saranno cambiati e più forti. Se, continuando a ragionare sull’asse evoluzione/assestamento, allarghiamo lo sguardo all’opposizione di destra è facile osservare come la capacità e la possibilità evolutiva sia qui inferiore. Nel caso di Forza Italia è fin troppo ovvio constatare come, dal 1994 e nonostante le diverse mutazioni del marchio, il partito non abbia dimostrato nessuna capacità evolutiva, restando un partito personale legato a intuizioni e umori di Berlusconi.

Per la Lega, il fatto è che essa ha già subito un gigantesco processo di cambiamento, passando dalla Lega Nord (federalista e secessionista) alla Lega (nazionalsovranista) di Salvini. E il mantenimento della leadership da parte di quest’ultimo tenderà a impedirne ulteriori evoluzioni. Anzi proprio la guida monocratica di un Salvini non più ministro premette di porre ancora di più in evidenza la tensione tra Lega nazionale 'di lotta' e Lega territoriale 'di governo'. Se Salvini da ministro dell’Interno 'bombardava il quartier generale' tutti i giorni, ora da semplice capo del principale partito di opposizione accentuerà questa tendenza al radicalismo. E la contraddizione tra un partito dall’ideologia sempre più radicale e dalla offuscata leadership carismatica e un partito del 'buongoverno territoriale' rischia di diventare sempre meno gestibile.

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