mercoledì 22 luglio 2015
Impegno dei grandi marchi, ma molto resta da fare a 2 anni dalla tragedia di Dacca, in cui morirono 1.100 operai che lavoravano per brand occidentali. (Stefano Vecchia)
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Il tragico crollo del 'Rana Plaza' a Dacca ha segnato forse uno spartiacque nel campo dello sfruttamento nell’industria tessile asiatica che produce per un Occidente spesso tentato di voltarsi dall’altra parte. L’emozione suscitata dagli oltre mille e cento morti nel disastro ha fatto avviare, negli ultimi due anni, una serie di iniziative concrete e ampie campagne di pubbliche relazioni da parte delle multinazionali dell’abbigliamento. Ma nei Paesi dove mantengono parte delle loro produzioni la situazione non è necessariamente migliorata di molto.  A inizio giugno, i lavoratori di manifatture cambogiane che lavorano per un gigante della grande distribuzione globale, Walmart, hanno denunciato gli abusi che ancora subiscono, dall’obbligo di orari di lavoro prolungati a violenze sessuali. Non eventi direttamente collegabili al marchio americano né ad altri brand internazionali, quanto alle aziende locali alle quali però i colossi commerciali ufficialmente pretenderebbero di imporre regole e diritti in coordinamento con le autorità, regole e diritti che spesso però restano sulla carta. Un rapporto pubblicato dai gruppi di attivisti per i diritti umani e dei lavoratori 'Jobs with Justice Education Fund' e 'Asia Floor Wage Alliance' ha raccolto testimonianze in diverse aziende del Paese, ma anche in India e Indonesia. Si denunciano «abusi efferati» a danno di moltissimi lavoratori anche di Cina, Bangladesh, Indonesia e Thailandia. Aree in cui, nonostante concreti e propagandati sviluppi positivi, resta più di qualche indizio che si perpetui quello che il rapporto citato segnala per Walmart, ovvero «una vasta e complessa struttura di fornitori (...) per nascondere lo sfruttamento».   In nessun Paese dell’Asia l’industria dell’abbigliamento ha un rilievo come in Bangladesh, dove è al vertice dell’economia nazionale. Se però contribuisce in modo essenziale alla crescita media del 6% del Pil, garantisce solo 68 dollari al mese ai suoi lavoratori, contro i 128 dei 650mila addetti cambogiani. Lunedì 8 giugno, a poco più di due anni dal collasso dell’edificio in un sobborgo della capitale, è stato raggiunto l’obiettivo dei 30 milioni di dollari del fondo per le vittime. L’iniziativa del Comitato di coordinamento per il Rana Plaza, guidato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), è destinata al risarcimento delle famiglie di quanti sono stati sepolti dal cedimento strutturale dei sette piani in buona parte occupati da manifatture tessili. Queste ultime in maggioranza colme di dipendenti in condizioni di lavoro assai precarie. A riprova, la circostanza che la mattina del disastro erano stati volutamente ignorati o minimizzati i segnali di cedimento già presenti e solo in pochi casi ai lavoratori era stato concesso di lasciare l’edificio. Le nuove donazioni sono servite a compensare anche 1.500 feriti. Del comitato fanno parte soprattutto le aziende internazionali che, attraverso appaltatori locali, producevano nel complesso, oltre che organizzazioni dei lavoratori e rappresentanze governative.   Come ha sottolineato il direttore generale dell’Ilo, Guy Ryder, si può parlare di «pietra miliare, che tuttavia non ci impedisce di vedere le sfide che abbiamo davanti. Dobbiamo ora lavorare insieme per assicurare che incidenti del genere possano essere prevenuti e che sia creato un solido piano di assicurazione nazionale per gli infortuni sul lavoro». Cresce intanto nel Paese la richiesta di provvedimenti verso aziende inadempienti e autorità addette alla sicurezza rese inerti dalla corruzione. Solo il 24 aprile, non a caso in coincidenza con l’anniversario del crollo, la polizia ha incriminato 41 persone per responsabilità nella tragedia, tra cui il proprietario del Rana Plaza, le cui macerie ancora oggi ricordano il lato oscuro di un settore che nel Paese dà lavoro a 3 milioni e mezzo di addetti e ha un valore di 25 miliardi di dollari l’anno, secondo solo alla Cina.   Anche per questo, la sciagura del Rana Plaza ha segnato i rapporti tra grandi brand internazionali – come l’italiana Benetton la spagnola Mango e la britannica Primark, che hanno partecipato al fondo di risarcimento – e i produttori locali. A questi ultimi vengono chieste in modo più stringente garanzie quanto a orari e condizioni di lavoro, in cambio di investimenti sulla sicurezza e subordinando le commesse al rispetto di standard internazionali. Ovviamente, il dibattito sulle responsabilità delle multinazionali – che sono di controllo, di gestione, di iniziativa e, infine, di risposta alle richieste etiche della propria clientela – non può ignorare altri fattori. Entra infatti in gioco il tentativo di ribasso continuo dei costi in un contesto di contrazione generale dei mercati. E conta il fatto che i nuovi attori asiatici distinguono tra produzioni ad alto contenuto tecnologico (auto, elettronica, meccanica), in cui garantiscono salari dignitosi e condizioni di lavoro sopra la media locale, e produzioni di basso livello tecnologico (tessili, accessori, calzature, alimentari), dove la disponibilità di manodopera e il relativo sottosviluppo giustificano politiche governative permissive circa le condizioni in fabbrica.   Se non si possono ignorare le responsabilità straniere, va anche segnalato che la sorte della manodopera locale è legata a interessi dei produttori locali, alle necessità dei governi di creare comunque occupazione e alla corruzione endemica. La realtà produttiva – anche di Paesi da anni alla soglia del pieno sviluppo, come la Thailandia – è segnata dallo sfruttamento drammatico.  L’imprenditoria locale accumula infatti immensi capitali in attività a alta intensità di manodopera, sottopagata, come piantagioni, prodotti alimentari, alcoolici e industria dell’'intrattenimento'. Ricchezza non reimpiegata a scopo produttivo o sociale, ma riversata in edilizia speculativa e nell’appropriazione di terreni e risorse portati a prezzi irraggiungibili per altri.  Capitali enormi, spesso reimpiegati all’estero in iniziative di prestigio ma in massima parte infruttuose per la società di appartenenza, come l’acquisizione di importanti società sportive.   Una situazione non dissimile da quella cinese, dove però lo Stato e il partito hanno un ruolo attivo. Qui interi sobborghi industriali stanno trasformandosi in distese di ruderi per la frenata dell’export che non consente più di sostenere l’occupazione, nemmeno quella sottopagata dei tempi di pieno sviluppo. Una condizione individuabile ora anche per il tessile indonesiano. Le difficoltà delle esportazioni stanno colpendo un settore produttivo che ha cinque milioni di addetti. Previsti tagli di decine di migliaia di posti di lavoro. In questa situazione, che rischia di diventare tendenza in buona parte dell’Asia in via di sviluppo, salari, tutele e diritti sono ancora più minacciati; mentre pressione e solidarietà internazionale diventano ancora più necessarie. Di fronte a questo quadro asiatico, la lontana Africa orientale, allora, con leggi ben più permissive e sovente senza garanzia di salario minimo, apre le braccia alla speculazione globale, offrendo salari di 40 dollari al mese.
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