giovedì 24 settembre 2015
​Reportage dalla "Lampedusa greca". La spiaggia dove approda la speranza dei profughi. (Giorgio Ferrari)
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Se incroci il loro sguardo, tu che appartieni all’Europa matrigna, quella che innalza muri e stende barriere di filo spinato per tenerli lontani, non ti regge il cuore. E nemmeno loro ti guardano. Tengono gli occhi bassi, sono ombre sfinite, lacere, bisognose di cure, di una doccia, ombre silenziose che anche fra loro spendono parole avare, mormorii, sussurri. Per la maggior parte sono siriani. Sono qui da giorni, stranamente pazienti, fiduciosi. Li ha portati il mare, quel mare che ogni giorno ne fa giungere di nuovi, solo ieri duemilacinquecento, ma afghani, questa volta. Il mare insaziabile che ad ogni passo reclama un tributo, un barcone che si rovescia, una bimba che annega, una famiglia intera che sparisce fra i flutti, impossibile tenere la contabilità di questa strage silenziosa e invisibile, perché contarli, censirli, identificarli è fatica quasi eroica. Il mare. Il 'mare colore del vino' di Odisseo, così terso di giorno, con il suo indaco addolcito da trasparenze celestiali, le sue onde lievi. Anche sull’altra sponda certamente appare così. «Sa dirk el bahar, un mare amico», dice in arabo Ilir, accarezzando con lo sguardo la linea dell’orizzonte... «Sembra un mare facile, ce lo siamo detti quando ci siamo pigiati sul gommone. Poche miglia e siamo di là. Ed è così, è stato davvero semplice per noi anche se era un po’ mosso. Ma non tutti sono stati così fortunati».   Dalla spiaggia greca di Mytilene la costa turca con la foschia del primo meriggio non si vede. Eppure è lì, a poche bracciate, volendo si potrebbe attraversarla a nuoto. Il pensiero corre a quelle tragiche allegorie del migrante ignoto, al bimbo di Bodrum, a quella bimba di quattro anni che le onde hanno restituito al bagnasciuga di Mytilene, alle decine, forse centinaia di migranti che in questo braccio di mare che separa la Turchia dall’isola di Lesbo hanno perduto la vita, a tutti quelli che ogni notte consegnano il loro destino a un gommone di terza mano per aggrapparsi a questo lembo estremo di terra, un’isola greca inospitale e bruciata dal sole come all’epoca di Saffo e Alceo, eppure così bella da immaginare, bella e piena di promesse a cominciare dalla dolcezza del suo nome: Europa (o come la pronunciano loro, siriani, afghani, pakistani: 'Teuròpa', con la 'o' strettissima), un accrocchio di fonemi che sa di palingenesi, di riscatto, di rinascita. Perché questa oggi è Lesbo, la Lampedusa della Grecia, dove sciamano i migranti e dal primo istante, da quando hanno posato le membra sulla rena ruvida delle sue spiagge il passato – e soprattutto quel presente di violenze, di sangue, di orrore che anno alle spalle – si allontana veloce come un fortunale marino, cullato da quel sogno di un futuro che finalmente sta diventando certezza.   Un sogno che i mercanti di vite umane che fanno lauti affari sulla costa turca quotano come fosse un titolo azionario a Wall Street. «La settimana scorsa ci volevano 2.800 euro per persona per un posto su un gommone – dice Safir –, oggi mi dicono che costa qualcosa meno, 2.600 o giù di lì. Il perché non si sa». Dell’orrore che hanno alle spalle parlano a fatica. «Da una parte – spiega Eliades, che parla arabo oltre che greco e ci fa da interprete – avevano i barbari dell’Isis che li facevano a pezzi a colpi di spada, dall’altra i bombardieri e i cannoni di Bashar al– Assad». Il porto di Mytilene, che con scontato eufemismo tutti chiamano ormai Little Syria, è affollato di migranti. Il campo si chiama Kara Tepe, le donne e i bimbi li hanno ricoverati qui in tende di fortuna, gli uomini si riparano dal sole spietato sotto le agavi e i palmizi, una lunga lenta teoria peripatetica che si snoda per un paio di chilometri. «Vanno al supermercato e comprano frutta, formaggio, acqua minerale, ma ricevano pasti e assistenza anche dalle organizzazioni umanitarie», dicono alla polizia. Secondo l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, «alla fine di agosto già 96 mila migranti erano transitati per il porto di Mytilene, praticamente la metà dei migranti approdati in Grecia, tra Kos e la terraferma. Ma ormai sono molti di più. Sull’isola di Lesbo ne stazionano almeno ventimila, quasi tutti identificati e in attesa di partire».   Prima che diventasse la porta d’ingresso dell’Egeo l’isola di Lesbo disponeva di una trentina di poliziotti e un paio di ambulanze. «Ma sono arrivati i rinforzi da Atene – spiega il vicecomandante Klearkos Mironis – e il numero è triplicato. Troppo pochi, comunque. Il problema non è l’ordine pubblico, perché i migranti finora sono stati molto tranquilli. Ne abbiamo arrestati solo un paio perché vendevano documenti falsi per l’identificazione. Il problema viene di sera». Ha ragione Mironis, impettito e orgoglioso nella sua divisa azzurra, e consapevole che quello che stiamo vedendo di giorno, quella specie di narcosi della coscienza favorita da un pomeriggio senza vento e dal sole spietato assume con il calare delle tenebre il contorno più autentico del dramma che quotidianamente si vive sull’isola. «Arrivano tutti qui, di solito. Aspettano che sia buio e si alzi la marea. Allora il mare si riempie di barche, barchette e gommoni. Finiscono tutti qui, su questa spiaggia, fino al promontorio là in fondo. Per lo meno quelli che ce la fanno. Come possiamo andare avanti cosi?». Vangelis, che nella bella stagione fa la guida turistica, piange. La tragedia dei migranti spezza il cuore. «E non è finita qui. Perché quando viene notte il dramma comincia davvero al porto, a Little Syria». Ha ragione. Ogni giorno, fin dal tardo pomeriggio la banchina di Mytilene si affolla di una marea umana. Aspettano. Alle 8 di sera arriverà da Kos la nave che ripartirà alle 11 per Atene. La nave dei sogni ha un nome severo e insieme magico: Eleftherios Venizelos, lo stesso dell’aeroporto internazionale della capitale. È un ferry della compagnia Anek che il governo ha messo a disposizione dei migranti, fa una corsa al giorno, Mytilene-Pireo, al prezzo politico di 50 euro. Ma il sogno per molti si frantuma di fronte all’arrembaggio che ogni volta l’imbarco finisce per provocare. La polizia blocca l’accesso alla rampa, centinaia di persone spingono, si urtano, urlano, perdono quella calma che si erano imposti mettendosi in coda anche diciotto ore prima. I poliziotti cercano di disciplinare quella marea scomposta, agitano i lunghi manganelli mulinandoli minacciosi sopra le teste. Non tutti riescono a salire. «Cerchiamo di fargli capire che prima o poi tutti quanti si imbarcheranno – dice Iannis Thanassidis, comandante della capitaneria – ma la nave ne tiene al massimo duemilacinquecento. Ma loro sono sotto shock, non riescono a crederci. E allora ogni giorno è così, un caos inarrestabile. E il governo, sì, anche quello di Syriza, non ha fatto praticamente niente...». Non c’è da meravigliarsi. Un fardello di paura e di diffidenza, di terrore per la propria sorte accomuna i migranti venuti dalla Siria, dal Pakistan, dall’Afghanistan. Ma quando la prora della Venizelos buca l’orizzonte a oriente il soffio di una speranza quasi selvaggia invade le membra e i cuori di quell’umanità ammassata sulla banchina. Il mormorio diventa cicaleggio, poi strepito, urla, invocazione. Come scrisse il poeta Alceo, figlio eccelso dell’isola, avendo attraversato il grande guado, di nuovo potrai vedere la luce pura del sole. E c’è chi il sole lo attende come un segno. «Non voglio dormire – dice un migrante che si è guadagnato un posto sulla nave –. Voglio vedere sorgere l’alba quando arrivo sul continente. La mia prima alba davvero libera».
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