domenica 5 giugno 2011
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Caro direttore, apprezzo, con le ragioni di M. Grazia Ballabio e Paolo Migani, la sua risposta calda ed equlibrata e la menzione di alcuni bei canti di chiesa recenti (Avvenire di venerdì 3 giugno). Però io, ultrasettantenne che ha vissuto con gioia il Concilio e detto addio allo splendido latino della liturgia, non posso fare a meno di chiedere: come si fa a dire che «la bellezza salverà il mondo», per poi ascoltare senza difficoltà certi canti (ce n’è sempre di nuovi, in ogni città e parrocchia) i cui ritmi evocano la discoteca o Sanremo più che aiutare a pregare? Perché non si cerca più spesso di tradurre o aggiornare la lingua di canti gregoriani e popolari come quelli della "Missa de Angelis", come "Adoro te devote" e "Lauda Sion", o anche "Mira il tuo popolo" e così via? Il pop spopola tra i giovani italiani che la scuola non ha mai educato musicalmente, e adesso la Chiesa ci ha rinunciato. A Radio Maria (per altri versi istituzione lodevole) sembra che basti mettere in cantilena un testo biblico, o infilare strofette zuccherose, per fare della musica sacra. E quando Quirino Principe, grande musicologo laico e anticlericale, osserva con maligno godimento che la Chiesa postconcilio ha buttato a mare uno dei suoi massimi patrimoni culturali, non gli si può dare tutti i torti e dispiace.Forse l’amore di Benedetto XVI per la musica sacra influirà un poco sulla situazione? Che non è puramente estetica: se l’Eucaristia è il cuore pulsante della vita della Chiesa, tutto quanto la accompagna è importante. O forse il massimo della bellezza sarà il silenzio? Uno spazio per il raccoglimento più lungo e intenso di quello che segue ordinariamente la Messa, allorché purtroppo tanti si mettono a chiacchierare ancor prima di uscire dalla chiesa?

Valentina Poggi

Gentile direttore, vorrei inserirmi anch’io nel dialogo «Muti, cantanti e appassionati» di venerdì 3 giugno. Di solito si mettono in evidenza solo gli estremi della questione: da un lato la "grande musica" e dall’altro le cosiddette "canzoni liturgiche". In realtà c’è una terra di mezzo molto positiva: ci sono in Italia decine e decine di compositori, molti anche giovani, che avendo studiato seriamente musica compongono canti liturgici ben scritti, adatti al canto dell’assemblea, ben esprimenti il testo liturgico o sacro; canti che – senza imitare gli stili della musica d’uso o da divertimento – ricercano quella 'nobile semplicità' di cui parlava il Concilio Vaticano II e quella "predisposizione" della melodia ad essere unita alla Parola di Dio di cui parlava il beato Giovanni Paolo II. Si sa che nelle parrocchie – è naturale – si fa quello che si può, con il rispetto per l’impegno e la fedeltà di chi opera in questo campo. E tuttavia: perché non "potere" ogni anno un po’ di più, dedicandosi ad uno studio serio della musica? Non è mai troppo tardi e non è necessario frequentare il Conservatorio: molte diocesi italiane hanno una propria 'Scuola diocesana di Musica', dove – oltre alla musica – si impara a conoscere meglio anche la Liturgia. Certamente si fa quello che si può, con i mezzi anche umili di cui si dispone: ma se – anziché accontentarsi – ogni anno si 'potesse' un po’ di più, si potrebbe 'fare' sempre meglio.Educare l’assemblea ad esprimersi sempre meglio e ad apprezzare una ricerca comunitaria – pur graduale e a piccoli passi – del 'bello' anche liturgico sarebbe un servizio non da poco nella Chiesa di oggi.

don GianLuigi Rusconi, parroco di Sirone (Lc)preside del Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra

Trovo fondate e incalzanti le domande poste dalla professoressa Poggi. E mi sembra che l’esortazione, anche metodologica, al 'bello' di un esperto come don Rusconi sottolinei ulteriormente i problemi, indicando al tempo stesso anche la possibilità di risposte interessanti, utili e soprattutto attuabili. Per quel che vale, dopo l’appassionata "provocazione" del maestro Muti raccolta su Avvenire del 22 maggio e le risposte di due amici lettori (e animatori), io ho già detto venerdì scorso che cosa penso e provo.Ma credo che il dibattitto sia ovviamente e giustamente aperto e vedo che è così. Il nodo della dimensione musicale propria della Liturgia e delle sue modalità attuali c’è, eccome. Ed è bene che sia sentito.
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