Immigrazione, i veri punti. L'autolesionismo della sola repressione
mercoledì 7 agosto 2019

Con la discussione e la conversione in legge del cosiddetto Decreto Sicurezza bis la politica migratoria del nostro Paese è stata ridotta quasi esclusivamente a pura repressione e soccorrere persone che scappano dai lager libici, luoghi di persecuzione e tortura, è diventato sempre più un reato. Con enormi costi umani, sociali ed economici. Anche economici perché le migrazioni contribuiscono a migliorare la situazione economica di chi arriva, delle famiglie a casa nei Paesi di origine (e dei Paesi di origine) attraverso le rimesse, ma anche dei Paesi di destinazione. Cioè anche dell’Italia.

La letteratura scientifica in materia insegna che i migranti sono razionali e “acquistano” un “titolo” ad altissimo rischio (decidono di effettuare tra mille pericoli la “traversata” da un luogo a un altro) solo in cambio di un altissimo rendimento atteso come differenza tra condizione di vita nel Paese di destinazione rispetto a quella del Paese di origine. Previsioni che si rivelano in media corrette. Le famiglie e i Paesi d’origine ricevono in termini di rimesse molto di più di quanto ottengono con i tradizionali aiuti allo sviluppo. Le rimesse rappresentano, come è noto, una fonte stabile e assai rilevante di flussi finanziari in entrata.

La nostra bilancia dei pagamenti ha vissuto per decenni in equilibrio grazie alle rimesse degli italiani che migravano all’estero e nei primi quindici anni del ’900 gli introiti dalle rimesse sono stati addirittura superiori alle entrate fiscali dell’imposta sui redditi. Oggi le rimesse contribuiscono a più del 20% del Pil della Moldova e in proporzione elevata al Pil di molti altri Paesi in via di sviluppo o emergenti.

Nel Paese di destinazione per un processo di dolorosa selezione arrivano persone con un tasso d’imprenditorialità molto elevato, che contribuiscono allo sviluppo. Gli immigrati meno qualificati occupano posizioni importanti nel piccolo commercio, nei servizi alla persona, nell’agricoltura e nell’industria che le persone in età da lavoro del Paese di destinazione non vogliono più occupare. Un recente libro di Nicola Coniglio dal titolo molto efficace (“Aiutateci a casa nostra”) raccoglie evidenze scientifiche e statistiche estremamente interessanti in questo ambito che ci aiutano ad approfondire la questione. Il libro racconta come in Carolina del Nord (Usa) con 500mila disoccupati locali nel 2011 siano state offerte 6.500 posizioni lavorative stagionali alle quali hanno risposto completando il percorso lavorativo solo 7 disoccupati locali. Gli stagionali che arrivavano dal Messico in quello stesso Stato nordamericano contribuivano nello stesso periodo per circa 371 milioni di dollari al Pil regionale. Grazie alla complementarietà tra il loro lavoro e le occupazioni locali si calcola che si sia creato un posto di lavoro locale ogni 3-4 stagionali.

Se questa è la realtà dei fatti è altrettanto vero un fenomeno per certi versi inquietante. I dati della European Social Survey ci dicono che, a parità di sesso, età, istruzione, tipo di professione e stato di famiglia l’esposizione a televisione e social aumenta l’ostilità verso i migranti e la percezione che il loro contributo all’economia sia negativo.

Un’interpretazione plausibile di questo risultato è che esiste uno scarto tra realtà vera e realtà percepita con la seconda che è determinata in modo chiave dall’agenda setting, ovvero dalla gerarchia di notizie che i media mettono al centro dell’attenzione. Gli incendi in Alaska e l’emergenza climatica hanno e avranno probabilmente effetti molto più significativi e drammatici sulle nostre vite nel futuro prossimo. Ma se televisione e social stabiliscono che la notizia principale è il tentativo di sbarco di qualche decina di migranti in un Paese che si sta fortemente spopolando attraverso l’unico canale reso visibile (quello di imbarcazioni delle Ong) è quella che diventa l’emergenza nazionale.

Il compito della politica, della società civile, delle persone di buon senso deve essere quello di costruire una politica migratoria attenta alle tre dimensioni del problema (umana, sociale ed economica). Lo sfruttamento del lavoro in condizioni di semi schiavitù nelle nostre campagne non aiuta certo a una rappresentazione virtuosa del fenomeno migratorio. Esiste in Italia un’agricoltura efficiente, ad alta intensità di capitale e con lavoro più qualificato e una meno efficiente, meno tecnologicamente avanzata che colma i suoi limiti con lo sfruttamento del lavoro. Informazione, scelte di acquisto consapevole di cittadini che “votano col portafoglio”, sistemi legali e politiche pubbliche possono e devono far vincere la prima. E sistemi a punti (come per mantenere la patente) per l’ottenimento della cittadinanza possono costruire incentivi virtuosi per l’integrazione degli immigrati nei Paesi di destinazione.

Il decreto Sicurezza bis è l’ennesima tappa di uno “scontro di civiltà” che si sta svolgendo da tempo anche nel nostro Paese. È possibile invertire la rotta solo se si ha piena consapevolezza del fenomeno e con una strategia in grado di affrontare contemporaneamente gli aspetti sul fronte economico, sociale e della comunicazione. Qui lo si scrive da anni, ma è indispensabile ripeterlo: non sarà un leader solitario a risolvere la questione e ancor meno l’illusione di tagliare il nodo in modo disumano, ma solo una presa di coscienza e un impegno fattivo e diretto di tutti: cittadini e politici lungimiranti. Siamo tutti convocati.

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