Metamorfosi alla svedese
martedì 13 settembre 2022

La Svezia è nel mondo uno dei Paesi più ricchi, più civili, più impegnati nella cooperazione allo sviluppo: una 'superpotenza umanitaria'. Stando agli studi sul tema, è anche uno dei più felici, nell’opinione dei suoi cittadini: un luogo in cui è desiderabile vivere. Era pure uno dei più accoglienti nei confronti dei rifugiati, saldamente in testa alle graduatorie europee per numero di profughi accolti in rapporto alla popolazione: 25 ogni 1.000 abitanti, contro 14 della Germania e 3,5 (scarsi) dell’Italia.

Su questo Paese fortunato si è abbattuto un ciclone elettorale: a scrutinio non ancora concluso e incerto nel suo esito finale, il vincitore politico incontestato è comunque il partito di destra radicale dei Democratici svedesi, capeggiato da Jimmie Akesson, che ha conquistato oltre il 20% dei suffragi, superando per la prima volta il partito della destra moderata. Lo sfruttamento elettorale delle questioni dell’immigrazione e dell’asilo, ancora una volta, primeggia nelle spiegazioni dell’inatteso risultato.

Qualcosa già scricchiolava nel modello svedese di accoglienza, con la comparsa di rumorosi movimenti xenofobi, azioni razziste in crescita, oscillazioni e chiusure politiche nei confronti di nuovi arrivi di profughi. Ora la crisi è diventata manifesta. Comunque finisca la competizione elettorale, la Svezia non sarà più quella di prima.

Il successo dei Democratici svedesi ha varie analogie con altri fenomeni analoghi nell’emisfero occidentale. Anzitutto, non era stato previsto dai sondaggi, almeno non in queste proporzioni, giacché appariva favorita la premier Magdalena Andersson, esponente della tradizione socialdemocratica.

Come nella Brexit, nella vittoria di Trump, nell’avanzamento del Rassemblement National in Francia, la propaganda di Akesson ha sfondato non tanto nelle grandi città multietniche, quanto piuttosto in provincia, nei piccoli centri e nei villaggi: in un contesto di incertezza crescente, con l’inflazione al galoppo, le bollette alle stelle e la guerra alle porte, non è l’immigrazione reale, alle porte di casa, a far paura, ma l’immigrazione immaginata, ingigantita, agitata come una minaccia nei confronti del benessere diffuso e del generoso welfare scandinavo. Come nel caso francese, ma con maggiore successo, Akesson ha preso in mano un partito screditato per le sue posizioni apertamente razziste e per la tolleranza verso l’uso della violenza e l’ha trasformato in una forza politica che professa moderazione e condanna il razzismo.

Grazie anche alla sua immagine tranquilla di quarantenne di provincia, inalbera ora un vessillo nazionalista che in realtà consente di raccogliere sia voti di destra estrema, sia suffragi arrabbiati e populisti, sia nuovi consensi nell’area conservatrice moderata. Ha persino cambiato simbolo, da un’inquietante torcia giallo-blu che richiamava il neonazismo a un più rassicurante fiore di anemone. A quanto pare, ha attratto nuovi elettori senza perdere i vecchi. Il populismo, nelle sue diverse declinazioni ma soprattutto in quella di destra, in tempi recenti sembrava in crisi sulle due sponde dell’Atlantico.

Ora invece sta rialzando la testa. Purtroppo, non è difficile prevedere che, non riuscendo a dare risposte rassicuranti ai cittadini sulle questioni economiche, di potere d’acquisto e di difesa dell’occupazione, Akesson e i suoi simili scaricheranno le ansie diffuse nella popolazione sul capro espiatorio dei rifugiati e di altri immigrati deboli. Più difficile comprendere che cosa rimarrà dell’Europa comunitaria, quando un numero accresciuto di governi avrà proclamato di voler essere 'padrone a casa propria' e di accettare i vincoli comunitari soltanto quando collimano con i propri veri o presunti interessi.

L’Europa dei nuovivecchi nazionalismi che si profila, se dovesse davvero realizzarsi, non sarebbe un problema soltanto per gli immigrati vecchi e nuovi, ma anche e soprattutto per i suoi stessi cittadini.

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