domenica 18 novembre 2012
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Le grandi crisi – e la nostra lo è – sono mo­menti di cambiamento di paradigma. La crisi degli anni Trenta del Novecento produsse la rivoluzione keynesiana, ma l’affermazione di quel nuovo paradigma fu preceduta da un lungo periodo di confu­sione metodologica, che scompaginò tesi consolidate da secoli. Lo stesso Keynes di­venne keynesiano, abbandonando le pro­prie precedenti teorie. Durante le epoche di passaggio, i confini tra i precedenti pa­radigmi si confondono, i tradizionali dog­mi diventano opinabili, le certezze si tra­mutano in incertezze. Oggi sta accadendo qualcosa del genere, e le classiche distin­zioni tra politiche economiche di destra e di sinistra sfumano, in certi casi si ribalta­no, si confondono. Ciò è particolarmente evidente in tema di diseguaglianza e libe­ro mercato. La visione tradizionale era molto polariz­zata. Il pensiero socialista associava l’e­spandersi del libero mercato all’aumento della diseguaglianza, il pensiero liberale tollerava di più le diseguaglianze perché dava la priorità alle libertà individuali. Que­sta visione tradizionale e speculare è sal­tata, e oggi vediamo autori liberali teoriz­zare che l’espansione del libero mercato riduce la diseguaglianza, e intellettuali che si definiscono di sinistra diventare paladi­ni delle liberalizzazioni. E così anche al­l’interno degli stessi schieramenti politici si ritrovano candidati che esprimono tesi radicalmente diverse su questo punto de­cisivo della democrazia e della economia attuali. Per uscire da questa sorte di 'notte del pen­siero' sarebbe necessario specificare di quale mercato si sta parlando. I mercati non sono tutti uguali, perché sono il frut­to di progetti politici e civili. C’è un mercato che ha ridotto e continua a ridurre le disu­guaglianze, e c’è un mercato che le ha fat­te crescere e che continua a incrementar­le. Il primo lo chiamiamo civile, il secondo capitalistico. E in Europa convivono all’in­terno degli stessi Paesi, Italia compresa. Il mercato della cooperazione, dell’impre­sa sociale, della finanza etica, dei distretti del 'Made in Italy', è stato e in parte è an­cora un grande strumento di civiltà, che ha al tempo stesso ridotto la diseguaglianza e aumentato le libertà individuali. L’altro mercato, quello capitalistico, in certe bre­vi e felici fasi della storia dell’Occidente è stato anche alleato del mercato civile (si pensi, ad esempio, all’Italia del miracolo e­conomico), ma nella fase attuale di capi­talismo finanziario sta aumentando le di­suguaglianze e riducendo le libertà so­stanziali di troppe persone, soprattutto del­le più povere e fragili.Come mostrava a fine Ottocento l’econo­mista italiano Maffeo Pantaleoni, a diffe­renza delle corse di cavalli o di atletica, nel­la 'corsa del mercato' non esistono sol­tanto i forti e i deboli, perché chi nel mer­cato vince oggi, domani parte più avanti nella linea di partenza, poiché le posizio­ni finali influenzano anche le posizioni i­niziali. Ecco perché un mercato senza un pubblico che ogni tanto ri-allinei le posi­zioni iniziali (ad esempio con il Patto Fi­scale di cui su 'Avvenire' si è molto scrit­to), non è luogo di libertà, ma di iniquità. C’è, poi, un altro elemento da tener ben presente quando si parla di mercato sen­za aggettivi qualificativi.Quando ero stu­dente, il programma che introduceva il Tg1 delle 20 si intitolava 'Almanacco del gior­no dopo', e vi si alternavano storia, cultu­ra, etologia. Oggi quella fascia oraria è co­perta da giochi e 'pacchi', autentiche li­turgie alla dea fortuna. Il libero mercato si basa sui gusti dei consumatori (l’audience è una applicazione di questa logica): è que­sta la sua grande forza, che però, se non accompagnato da altro, diventa anche grande debolezza. Affinché il mercato non diventi una gara al ribasso su tutti i fronti, c’è un vitale bisogno di forti investimenti nella scuola e nella cultura, che offrano ai cittadini strumenti per esercitare coscien­za critica e vera libertà di scelta. Il mercato, perché sia veramente civile e luogo di libertà, ha bisogno di cittadini che siano nelle condizioni di poter effettuare scelte informate. Se oggi le imprese che investono in settori come arte, cultura, giustizia, ma anche cibo biologico e energie bio-sostenibili, non sono accompagnate dal­la società civile e dallo Stato che offrono educazione e formazione adegua­ta a partire dalle scuole, sono condannate a partire troppo indietro nella 'corsa' del mercato. In Italia, ad esempio, l’educazione musicale, alimentare, ambien­tale, al consumo dei bambini e degli adulti è nulla o tragicamente troppo insuf­ficiente, e se non sappiamo distinguere tra una canzone pop e una sinfonia di Beethoven, o tra un caffè del commercio equo e un caffè che costa poco perché prodotto sfruttando i lavoratori, persino lo 'sviluppo' dei mercati peggiora tut­ti e tutto. Se vogliamo dar vita a un mercato che aumenti sia le libertà sia l’uguaglianza, in­vestiamo di più nella scuola e nella cultura, e cambiamo programmi scolastici. Ma, soprattutto, a chi parla di mercato, politici compresi, chiediamo sempre di quale mercato parlano e quale mercato vogliono; perché i mercati sono molti, e non tutti sono buoni.
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