sabato 25 agosto 2012
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Caro direttore,ho seguito il caso dell’Ilva come si conviene a un dramma umano e sociale. Ma con una speciale attenzione al suo risvolto etico-politico. Trattasi di un caso di scuola di dilemma morale ove sono in conflitto due beni-valori essenziali quali la salute e persino la vita, da un lato, e il lavoro, dall’altro. Facile teorizzare che non ci si può rassegnare alla logica, quasi al ricatto, di una secca alternativa. Tesi sacrosanta in punto di principio e tuttavia un po’ esorcistica in punto di fatto. Se non vogliamo indulgere alla demagogia, al diplomaticismo e persino all’ipocrisia, sappiamo bene che, nei fatti, quei beni-valori sono tra loro in tensione. A rigore, una interpretazione estensiva del principio di precauzione, a fronte dell’accertato carattere nocivo di quegli impianti, comporterebbe la loro chiusura. Punto e basta.Eppure tutte le voci ragionevoli e responsabili e persino la magistratura, che pure dovrebbe limitarsi alla rigorosa applicazione delle leggi, resistono a tale perentoria soluzione. Esse piuttosto invocano e attivamente ricercano una saggia mediazione, la composizione di valori e interessi pratici di persone e comunità. E bollano rispettivamente come cieco industrialismo e fondamentalismo ecologico le due opposte soluzioni estreme e unilaterali: di chi sacrifica la salute al diritto al lavoro o, all’opposto, di chi sacrifica il lavoro per il diritto alla salute. Alla mediazione, difficile ma moralmente obbligata, si applicano lavoratori e imprenditori, politici e pubblici amministratori. E persino l’arcivescovo di Taranto. A mio avviso giustamente. E non ho sentito obiezioni.Eppure, a ben riflettere, anche qui è in gioco un valore che abitualmente definiamo non negoziabile. Alludo alla salute ma anche alla vita, perché è provato dalle perizie (quelle non manipolate di cui si stanno occupando le inchieste giudiziarie) che certe malattie e persino certe morti sono state causate da quegli impianti. Il caso, a mio avviso, merita di essere tematizzato dal punto di vista dello statuto del giudizio morale e persino del giudizio cristiano.Segnalo tre profili. Primo profilo: la circostanza che princìpi e valori entrino tra loro in conflitto è più la regola che non l’eccezione. E il giudizio morale si pone quasi sempre come comparazione e bilanciamento tra beni-valori tra loro in tensione nella vita concreta. È giudizio di natura pratica. La coscienza cristiana talvolta ingenuamente lo interpreta nel segno di una secca alternativa tra principi assunti nella loro astratta formalità. Secondo: la mediazione è attività irrinunciabile nel giudizio pratico e segnatamente nella valutazione politica. Tanto più nelle società abitate dal pluralismo delle concezioni etiche e rette da ordinamenti democratici. L’appello ai princìpi non negoziabili non dovrebbe esonerare dalla loro mediazione dentro la prassi concreta. La mediazione è una virtù e persino un dovere morale e cristiano.Terzo profilo: in sede di giudizio morale non si deve considerare solo la qualità e il grado formale dei princìpi in gioco (nel caso dell’Ilva appunto la salute e persino la vita) ma anche il loro rapporto con altri beni-valori e la loro contestualizzazione nella condizione concreta di persone e comunità. Esattamente ciò che giustamente si va facendo nel drammatico caso di Taranto, considerando che anche il lavoro è un bene essenziale alla vita.Mi piacerebbe essere aiutato come cittadino, come uomo politico e come legislatore, ad approfondire il nesso – l’unità nella distinzione, per dirla con Maritain – tra princìpi non negoziabili e mediazione pratico-politica. Perché, non lo nascondo, talvolta ho l’impressione che la si faccia troppo facile, con il risultato di avallare la schizofrenia: il magistero che proclama princìpi alti e i cristiani che fanno ad essi il verso, ma poi tra sé e sé pensano che quei princìpi non siano di questo mondo e che la vita concreta sia un’altra cosa. Esattamente quella separazione che si vorrebbe scongiurare da parte del magistero morale.
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