mercoledì 26 marzo 2014
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Gentile direttore,
ho letto le dichiarazioni dell’ingegner Mauro Moretti, amministratore delegato di Ferrovie dello Stato Italiane, circa la sua possibile reazione a una decurtazione dei propri emolumenti. Senza entrare nel merito, mi ha fatto venire in mente la risposta data dall’ingegner Riccardo Bianchi (Casale Monferrato 1854-Torino 1936) a Giovanni Giolitti. Nelle sue memorie il capo del governo racconta che nel 1905, mentre si stava concludendo l’iter parlamentare che condusse all’istituzione delle Ferrovie dello Stato, chiese a Bianchi se volesse assumere l’incarico di direttore generale delle costituenda Azienda e lo interrogò anche su quale stipendio desiderasse. Bianchi, che era un tecnico e un organizzatore aziendale di statura internazionale (si veda la voce di Franco Bonelli nel "Dizionario biografico degli Italiani": http://www.treccani.it/enciclopedia/riccardo-bianchi_%28Dizionario-Biografico%29/), lo sorprese chiedendo lo stesso esatto stipendio di cui godeva quale direttore generale della riscattanda Società italiana delle strade ferrate della Sicilia (la "Rete Sicula", di cui era stato appunto nominato direttore generale nel 1901, portandola in attivo e migliorandone notevolmente materiali, impianti e servizi). Quello stipendio – come è documentato dal decreto della Corte dei Conti riprodotto nella biografia di Giuseppe Pavone, Riccardo Bianchi: Una vita per le ferrovie italiane, presentazione proprio di Mauro Moretti, Roma, Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani, 2005 – era di 24.000 lire all’anno. Per un utile confronto, segnalo che secondo uno studio di Maurizio Panconesi ("Ferrovie dello Stato. Il primo anno di esercizio FS 1905-1906. Il nuovo materiale rotabile", Cento, La vaporiera, 2008) basato sulle pubblicazioni ufficiali dell’epoca, in quello stesso 1905 lo stipendio annuo di un capo conduttore principale di prima classe andava da 2.100 a 3.600 lire, quello d’un capo tecnico di prima classe dalle 3.000 alle 5.100 lire e quello d’un capo deposito locomotive di prima classe dalle 3.000 alle 4.800 lire. Buone riflessioni e cordiali saluti,
Alessandro Crisafulli, Palermo
La sua argomentazione, gentile signor Crisafulli, è molto solida e interessante. Non mi piace per nulla criticare gli stipendi degli altri e perciò evito di farlo, ben consapevole che, in genere, quando le tasche non sono le nostre risulta piuttosto facile fare i moralisti e gli sforbiciatori. Ma mi piace moltissimo – e mi pare stia alla base anche del suo documentato ragionamento – l’idea che il servizio in un ruolo pubblico o in un’azienda pubblica sia considerato da chiunque si candidi o accetti di farlo non solo un "lavoro" o un "potere", ma un grande onore e, già di per sé, una specialissima "retribuzione". Essere riconosciuti – per elezione o per selezione o per chiamata – all’altezza di fare qualcosa di importante per la propria comunità, per il proprio Paese, è – a mio parere e per gli esempi positivi che ho avuto – anche questo: un grande anzi, per certi versi, il più grande riconoscimento che si possa ottenere. Non pretendo ovviamente che un tale servizio lo si svolga a titolo gratuito, anche se non posso fare a meno di accennare alle impressionanti e troppo dimenticate lezioni di disinteresse che ci sono venute da grandi personaggi del passato, e soprattutto da alcuni protagonisti della cosiddetta Prima Repubblica, una stagione di ricostruzione e di avanzamento civile dell’Italia tanto vituperata – purtroppo anche a ragione nella sua ultima fase – quanto ricca di pagine e profili davvero straordinari: cito solo Enrico Mattei, il geniale, potente, discusso e infinitamente rimpianto "inventore" dell’Eni che per se stesso accettava appena uno stipendio da impiegato (neanche da dirigente) e lo versava interamente a un istituto di caritatevoli suore. Un caso eccezionale? Già. Ma perché vero eppure eccezionale era l’uomo, e dunque il manager. La ringrazio, però, di avermi proposto l’esempio dell’ingegner Bianchi, illustre e quasi mitico predecessore dell’ingegner Moretti alla testa delle Ferrovie dello Stato. Un esempio che il mio professore di lettere al ginnasio avrebbe definito «perfettamente calzante». Anche a mio giudizio è davvero adatto a spiegare la giusta proporzione tra la retribuzione di un "capo" e le retribuzioni di quanti lavorano con lui. Delinea, infatti, un impeccabile stile e una misura che non esito a definire umana, mentre superumane, anzi, addirittura disumane, sono certe stellari sproporzioni – top manager pagati non quattro-cinque volte un "normale" dipendente, ma cinquanta-cento-mille volte di più – che ormai riempiono le cronache in giro per il mondo e nel nostro stesso Paese. Abbiamo bisogno di tornare a quote più normali anche su questo piano, e proprio su questo piano in modo particolarmente esemplare: non annullando responsabilità e meriti, ma riducendo le differenze abissali. E abbiamo bisogno di tornare a pensare e a insegnare ai nostri figli che il vero "onore" di una persona non è il suo (più o meno ostentato) reddito, ma ciò che "costruisce" e mai solo per sé.
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