venerdì 2 dicembre 2011
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Il guaio della complessità è che non si governa da sola. Lasciato a se stesso, un sistema sofisticato come può essere, per esempio, quello di una grande città diffi­cilmente precipita nel caos. Più spesso pro­cede per adattamenti e aggiustamenti, al­l’istintiva ricerca di un principio che lo re­goli. Che lo governi, appunto. Sono asse­stamenti dapprima impercettibili, ma che finiscono con il produrre abitudini diffici­li da estirpare, così come – nelle parole dei magistrati che stanno conducendo le in­dagini – difficile da estirpare è la mala­pianta della ’ndrangheta. Il cuore sta a Reg­gio Calabria, hanno ripetuto ieri gli inqui­renti, ma la più temibile organizzazione criminale del nostro Paese ha un raggio d’azione che giunge facilmente sino a Mi­lano e nel resto dell’Italia settentrionale, investendo anche una «zona grigia» inter­nazionale di cui le cronache si accorgono a intermittenza, come accadde nell’ago­sto del 2007 in occasione della strage di Duisburg, in Germania. A Milano la ’ndrangheta non ha avuto bi­sogno di conquistare il centro. Ha preferi­to procedere dai bordi della metropoli, piuttosto, infiltrandosi nelle amministra­zioni comunali dell’hinterland e sfruttan­do un’altra e non meno preoccupante «zo­na grigia», quella in cui gli imprenditori ri­schiano di trasformarsi da vittime del ri­catto in complici di comportamenti illega­li. La casistica è nota e corrisponde, grosso modo, a quella resa celebre da Roberto Sa­viano in Gomorra e più recentemente a­nalizzata da Giuseppe Catozzella in Alvea­re : il business vertiginoso dei rifiuti tossici (e radioattivi), il meccanismo dei subap­palti che permette di lucrare sulla costru­zione di grandi infrastrutture, la galassia di società di comodo e di attività commerciali adopera­te a copertura. Un arcipelago cri­minale impossibile da conosce­re nella sua interezza, ma la cui esistenza, giunti a questo punto, è altrettanto impossibile ignora­re. Perché – come ha sostenuto ieri il procuratore aggiunto Ilda Boccassini – ciò che contraddi­stingue la versione milanese della ’ndrangheta è proprio la presenza di una «visione u­nitaria » che, a quanto pare, latita nella società civile. Anche al Nord, insomma, la malavita fa «sistema» (com’è noto, questo è il termine che i camorristi a­doperano tra loro per rife­rirsi alla camorra), mentre per il resto si procede in ordine sparso. Esattamente co­me facevano, tempo fa, le vecchie ’ndrine litigiose e disorganizzate. Forse è questa mancan­za di progetto, questa lentezza nel riconoscere che per governare la complessità dell’economia e della convivenza occorre una logica di sistema, è questa carenza di un colpo d’occhio lungimirante ad ali­mentare le penombre di un’ambiguità in cui vittime e complici si confondono, si scambiano di ruolo e da ultimo si coaliz­zano in un rompicapo inestricabile. Ex capitale industriale, Milano ancora non è riuscita a ripensarsi come qualcos’altro. Non è un discorso politico, tanto meno di contrapposti schieramenti. Né da «noi» né da «loro» (chiunque sia quel «noi», a chiun­que corrisponda quel «loro») è finora ve­nuta un’indicazione su che cosa sarà Mi­lano da qui a qualche anno, quando le lu­ci dell’Expo si saranno spente. E quella del­lo spegnimento sarà comunque una buo­na notizia, perché significherà che, nono­stante tutto, le luci sono riuscite ad accen­dersi. L’allarme sul ruolo che la ’ndran­gheta ha assunto nella metropoli verso la quale, a torto o a ragione, l’Italia continua a guardare come a un possibile modello, deve farci comprendere che nessun vuo­to, e tanto meno questo vuoto di proget­tualità, può restare incolmato. Dove non arriviamo «noi», arrivano «loro». E «loro», questa volta, sono le onorate società.
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